Ho sognato l’Ospedale

Copertina Ho sognato l'ospedaleEdizioni

Prima edizione: Il melangolo, Genova 1995.

Traduzione francese: J’ai rêvé de l’Hôpital (Danièle Valin), Postfazione di G. Giorello, Payot et Rivages, Parigi 1999.

Titolo

Un sogno, presentato quasi alla fine del libro, condensa il senso del racconto: l’umiliazione. Umiliazione di dover soggiacere ai ritmi del corpo, perdere la propria intimità, il controllo di se stessi. Nella dimensione metaforica del sogno, l’Ospedale – dove l’uso della maiuscola sottolinea lo stacco dal quotidiano per diventare emblema di una condizione esistenziale – rappresenta un’esperienza “estrema”, in cui terrore, umanità, ironia si alternano in un mondo senza tempo, irreale. Come un  sogno, appunto.

 

Argomento

A dispetto dell’argomento – la malattia, la morte, il ricovero – il libricino, suddiviso in capitoletti («Gli antefatti», «Il disturbo intestinale», «Al Pronto Soccorso»…) risulta un racconto divertente, ironico, affatto deprimente. L’occhio della scrittrice trasforma il realismo della degenza ospedaliera in una visione fantastica, onirica, in cui il corpo, la malattia e le funzioni primarie sono raccontati con toni comico-grotteschi, al di fuori di ogni schema. I medici, le infermiere, le altre degenti – tutti immersi in una disciplina ferrea, dai ritmi rigidi e codificati – popolano questo mondo “altro” in cui il tempo, le scansioni della vita di fuori sembrano sospese.

 

Incipit

Gli antefatti

 

   Lettura delle mie poesie nella libreria di Borgo Po a Torino (Borgo Po è una delle mie patrie). Mi aveva invitato Piero (Gelli) e alla Einaudi si erano offesi (lui non era più lì). Ma Piero aveva soltanto trasmesso l’invito della libreria (nuova).

   L’albergo a Torino si chiama Victoria ed è davvero vittoriano, vecchiotto. Mi piace molto.

   L’avventura di Antonio era già incominciata: si misura la febbre: 39 e mezzo. Viene a prendermi Piero con un’amica milanese che era poi all’origine dell’invito. Per strade ignote del vecchio Borgo, arriviamo alla libreria. Vedo che è già lì Giulio Einaudi. Lui è un signore, si salutano con Piero senza imbarazzo. Ci sono molte persone attente, tese. Io apro a caso il mio libretto, leggo e commento, per lo più sull’«occasione», anche se ha poco a che fare col testo poetico (ma, appunto per questo, intrigante).

Antologia della critica

Se ci si ferma su Ho sognato L’Ospedale […] si rileva in modo vistoso la forza dello sguardo e la capacità visionaria della Romano, la quale nel cogliere i minuscoli tratti di quella realtà sorprendentemente codificata che è la vita quotidiana di un ospedale vi innesta una visione ora leggermente fabulosa ora comico-grottesca, ora divertita e ispirata, vi sovrappone una fantasia dell’ospedale, il proprio sogno appunto dell’ospedale. […]

Certo Lalla passa molto tempo sola. Così la sua memoria seleziona, sceglie alcuni eventi e cerca di dimenticarne altri come tutte le memorie feconde. In questi brani volutamente brevi, isolati, ma anche anelli della catena visiva e visionaria, prendono quota alcune riflessioni sulla vita irreale dei malati, come quella sul tempo, il grande compositore. […]

Lalla Romano è sempre una pittrice quando scrive. Questo implica che le cose diventano un quadro. C’è una trasmigrazione e di qui la forza dello sguardo sul reale, siano cose, facce, andature o gesti di infermiere. […]

Il buon lettore di questo libretto da un lato si divertirà, perché è anche un libro spiritoso; dall’altro capirà che il compito di modellare con intelligenza d’arte la materia bizzarra e incoerente di cui è fatta la realtà è il più autentico e impegnativo che possa darsi uno scrittore.

 

Maria Corti

«L’immaginazione», XII (1995), n. 119, pp. 18-19;

poi, col titolo «Il “sogno” dell’Ospedale», in A. Ria (a cura di), Intorno a Lalla Romano.

 Saggi critici e testimonianze, Mondadori, Milano 1996, pp. 114-16

 

 

Ho sognato l’Ospedale è un libro di presenze concrete che fulmineamente occupano la pagina, diventandone il ritratto secco, implacabile. […]

Eppure la concretezza del ruolo che è proprio dell’Ospedale, quella dimensione di indagine-analisi sul corpo viene qui volontariamente sviluppata da Lalla Romano come un’ossessione che cerca appunto il grottesco quasi come espiazione del dolore. Quasi per giungere ad un suo allontanamento. Colpisce, appunto, in questo libro come la dimensione della malattia diventi non già protagonista, ma sottofondo o stessa quinta di una realtà che tutto comprende fuorché appunto l’essere stesso della malattia. […]

Il «sogno» dell’ospedale, «realtà altra», come quella di tante istituzioni, trasfigura un soggiorno in una «villeggiatura» che porta con sé l’ironia, l’imprudenza e la cristallina verità poetica di certe pagine cechoviane.

 

 Fulvio Panzeri

«Avvenire», 22 aprile 1995

 

 

Ho sognato l’Ospedale è un piccolo, prezioso capolavoro affidato, ma solo in apparenza, a una spietata semplicità. […]

Sogno, dice Lalla, paragonando quei giorni fuori dal tempo alla irrealtà del sogno, ma un sogno sognato attraverso la grande arte che in lei, scrittrice, sembra crescere con l’età, con lo sguardo che si è fatto allegro e distaccato e che perciò riesce a inchiodare i particolari come si avverassero per la prima volta, dando luogo a continui e improvvisi stupori. Medici, infermieri, malati recitano la loro eterna parte sulla scena della vita e della morte, mai tanto umani come nel loro ruolo di attori. Non ricordo un altro testo dove la presenza della morte, sempre in agguato, diventi così leggera, dove il coraggio diventi un fatto tanto naturale, dove le umiliazioni del corpo si trasformino in una smagliante vittoria dello spirito.

 

Ferruccio Parazzoli

«Famiglia Cristiana», 24 maggio, 1995

 

 

Ho sognato l’Ospedale può apparire come il resoconto di una breve degenza per esami clinici, iniziata in modo drammatico e chiusa, si ha motivo di credere, serenamente. La permanenza nel nosocomio presenta un carattere distintivo di fondo: è la prima compiuta nel corso di una lunga vita, che mai ha conosciuto malattie, cure, interventi medici. Essa è occasione di scoperte, impressioni, reazioni che stupiscono la degente e chi le sta accanto. […]

Non diario, non taccuino, non rapporto, né relazione, ma racconto che ha in sé la sua ragion d’essere, a dimostrazione di quanto la Romano afferma, facendo sua una sentenza di Jorge Luis Borges: «L’immaginazione è facile, la memoria difficile».

 

Giorgio Zampa

«Panorama», 26 maggio, 1995

 

 

Ho sognato l’Ospedale è un racconto che si dipana in uno spazio-tempo privilegiato, in un’atmosfera chiusa, in un mondo totale. […]

Domande stridule, chiose melodrammatiche, bisticci verbali, situazioni surreali, espressioni plebee, immagini frivole, equivoci divertenti, in sottile mescolanza con le ombre, le presenze, i fantasmi di un universo che come nel sogno imbarca i bagagli di un viaggio che altro non è se non il viaggio stesso del nostro vivere. […]

Ciò che colpisce […] è la schiettezza della visione del mondo, l’abbattimento del diaframma che passa tra letteratura e vita. Qui la scrittura ha infatti la franchezza della necessità, di ciò che non è che stile. […]

Uno sguardo che si è fatto sempre più essenziale, scarnendosi fino all’osso e mantenendo la sola e unica fedeltà per cui valga la pena di vivere: quella della poesia. E il termine non è certo a caso. Poesia e non prosa, perché anche un libro di pura prosa può essere per lei un libro di poesia, «anche dove non c’è assolutamente lirismo». […]

Ho segnato l’Ospedale va dunque letto, prima che nei tanti modi possibili, come un libro poetico. A cominciare naturalmente dall’incipit torinese, secco e nominale («Lettura delle mie poesie nella libreria di Borgo Po a Torino»). Le storie come questa, in quanto poetiche, non possono essere che «estreme».

 

Giovanni Tesio

«Anteprima Torino», I, n. 5, giugno 1995, p. 45

 

 

L’autrice racconta una sua recente avventura ospedaliera.

Medici e infermieri, compagne di stanza e visitatori, compresi il nipote e la nuora, comprese le malate somiglianti ad antiche amiche e subito chiamate con il nome di quelle, e i passaggi nelle varie sale, le soste nei gabinetti, lo stato di umiliazione che deriva dalla malattia, e ancora i sogni rivelatori, le notti insonni, i momenti della dimenticanza e dell’allegria, quelli della paura e della sofferenza, tutto viene raccontato con ironia ed esattezza, tutto è palpabile e prossimo, e pure tutto è immerso nella grazia e nella levità di una favola: che assomiglia al vero e pure lo conclude e dimentica.

 

Elio Pecora

«La Voce Repubblicana, 13/14, giugno, 1995

 

 

Ho sognato l’Ospedale è sì la cronaca autobiografica – per quanto ironica e a tratti allucinata – di un ricovero ospedaliero, ma è anche, forse principalmente, la perlustrazione di un territorio metafisico percorribile solo in grazia di visione, sul filo di uno spaesamento onirico.

 

Chiara Palazzolo

«Panorama della sanità», 15 luglio, 1995

 

 

Ho sognato l’Ospedale è un altro racconto di autobiografia che Lalla Romano ha scritto alla sua bella età.

Una malattia – e la degenza all’ospedale (analisi cliniche etc.)– è il senso dell’esistere che Lalla racconta, il suo personalissimo senso dell’esistere, fatto d’acrimonia, di puntiglio, di appetiti (anche sensuali), e di sfida.

Lo stile calibratissimo, ottenuto con caparbia tensione «a togliere», rende giustizia a quei sentimenti. Morire sarebbe facile: più difficile è vivere; e vivere è una bella scommessa.

La saldezza dei ricordi, la saldezza del corpo hanno la meglio su qualsiasi possibile defezione. La volontà in Lalla è qualcosa di massiccio e incomparabilmente orgoglioso (è una volontà indirizzata a non barare mai con se stessi) – ma il bello è che lei ne sa sorridere. […]

Così il suo essere caparbio, la sua acrimonia diventano qualcosa di dolcemente lieve, senza svanire per questo.

Lalla sa trasformare la propria fatica a esistere in una fatica a essere, sulla pagina e nella vita.

 

Enzo Siciliano

Diario, in «Nuovi Argomenti», n. 5, ottobre-dicembre 1995, p. 7

 

 

Molti dei malesseri, delle preoccupazioni o delle paure del paziente sono conseguenze di una struttura più generale, in cui la parte è stata sostituita al tutto. […] L’essere portatore di scienza diventa essere semplicemente oggetto e non più soggetto d’indagine. La tecnologia dovrebbe essere al servizio del malato; invece è il malato al servizio di tecnologie che non conosce. Lalla Romano, a questo proposito, usa una bellissima espressione: «Non so perché il Professore mi abbia destinata a una radiografia». «Destinata» all’apparato tecnico. […]

C’è una bellissima pagina di Lalla Romano che ci spiega appunto che la logica della corsia e quella della caserma sono molti simili. […]

Quindi anche l’aspetto dell’«alleanza» […] diventa sempre più di subordinazione tra ineguali. Il «ceto medico» ha il controllo, il «ceto di pazienti» no. È una tematica complessa, che attraversa tutto il dibattito della filosofia della medicina.

Lalla Romano ci fa capire queste situazioni di profondo disagio intellettuale, non in modo filosofico, astratto o generale, ma attraverso quello che chiamerei un uso magistrale del linguaggio, un elegante tecnica della parola.

 

Giulio Giorello

Traduzione italiana della Postfazione a L. Romano, J’ai rêvé de l’Hôpital,

 Payot et Rivages, Parigi 1999, pp. 78-80