Un caso di coscienza

Copertina Un caso di coscienzaEdizioni

Prima edizione: Bollati Boringhieri («Varianti»), Torino 1992.

Premi 

Premio Gandovore, Brescia 1994.

Titolo

La «coscienza» è quella della scrittrice coinvolta in un «caso» che la costrinse, contro la sua abituale natura, a prendere posizione, a schierarsi nella vicenda umana («troppo umana») di una collega di scuola considerata eretica e incriminata dall’«ottusità dello zitellume scolastico».

«Come posso aver avuto a che fare con un caso di coscienza?», si interrogava Lalla Romano in un’intervista rilasciata all’uscita del libro, lei che chiedeva «soltanto di contemplare in pace la bellezza del mondo». La risposta che la scrittrice si dava era legata al caso (non umano, ma fortuito) per cui, contemplando le montagne da lei amate, l’orizzonte vastissimo e la vita degli insetti, la sua memoria le aveva riportato viva e presente una storia del passato, che si era sentita in dovere di raccontare, favorita dalla bellezza della natura.

 

Argomento 

È una «piccola» storia di intolleranza ambientata in una scuola media del centro di Milano. Sono gli anni Cinquanta – il famigerato periodo di Scelba –, ma la «grande» storia resta sullo sfondo, mentre viene rievocata l’odissea della professoressa aderente ai Testimoni di Cristo, processata per le sue convinzioni religiose non ortodosse, isolata dalla bigotteria dei benpensanti, difesa solo dai non allineati alle convenzioni sociali. Il punto di partenza è la convocazione della scrittrice chiamata dalla preside per convincere la collega sotto accusa ad andarsene. Il prosieguo è il coinvolgimento passionale nella difesa della donna umiliata e privata dei figli (perché le sue convinzioni le vietano di acconsentire ad una trasfusione di sangue del più piccolo). La conclusione è il discorso di congedo scritto da Lalla Romano, anni dopo, per la preside che andava in pensione.

 

Incipit 

La chiamata

  

   Il principio fu questo: la telefonata. Primo pomeriggio, io a letto, dormo; il telefono –  sul comodino     – mi scuote.

   – Sì?

   È la Preside (una vecchina), voce flautata (vuole qualcosa).

   – Signora Monti, occorre la sua presenza qui. È una questione disciplinare.

   Nessun presentimento da parte mia, solo seccatura. A scuola, quello che non era le facce delle bambine per me era seccatura.

   Sapevo – supponevo  –  di non godere di considerazione; solo per anzianità facevo parte di qualcosa come il Consiglio di Presidenza, perciò venivo convocata. Ma avrà proprio detto «disciplinare»? Risultò ben più grave in realtà, e io non avevo mai appreso il gergo.

 

Antologia della critica

Lalla Romano fa un racconto di intuizioni e di sottili speculazioni. Non solo un atto di restituzione ma di insinuazione poetica che le consente di darci un quadro di quel mondo e di quella scuola. Le basta poco per rendere vivi i personaggi, per darci i colori e i suoni del passato. Ora per fare questo bisogna partire da una coscienza poetica assai robusta, quasi naturale. Così ciò che potrebbe sembrare sbrigativo, addirittura troppo semplificato denuncia un’attenzione, il bisogno di fare del passato qualcosa che la tocca per la prima volta. Un’operazione di ricreazione che in realtà ha l’efficacia del nuovo, della sorpresa. […]

La Romano gode di una facoltà sempre più trascurata o dileggiata, raccontare per se stessa delle storie che hanno un valore universale. Non si nasconde, non adopera maschere di nessun genere, anzi c’è una parte di sfida nel mostrarsi nuda, senza abiti culturali […]. Tutto questo non si ottiene per volontà, ma perché si è raggiunta una fusione fra il proprio sentire e il mondo che ci circonda. […]

Il racconto è la prova dei grandi risultati raggiunti in tanti anni di «stare al mondo» nella più assoluta libertà. E ciò che potrebbe suonare eccesso di franchezza e di sicurezza è il segno della grazia che solo la poesia ci concede.

 

Carlo Bo

«Corriere della Sera», 12 novembre 1992

 

 

Conciliare ardue problematiche e levità di stile non è stato mai troppo difficile per Lalla Romano, e Un caso di coscienza dichiara quest’intento fin dalla sua configurazione: un titolo austero, un autoritratto a linee energiche in copertina, e la grande leggerezza – anche fisica – delle pagine.

Perché di un libricino si tratta, di un libro esiguo, piccolo, e insieme grande, contrassegnato da una forte impronta di etica e di stile. […]

Cosa rimane di questo caso di coscienza lungamente coltivato nella memoria? Il ricordo di personaggi di forte e tenera umanità – ed è quello che il fool, non lo storico, coglie –, la composta dignità di Mimma, che affronta il processo forte dell’altra vita che, all’insaputa di tutti, le sta crescendo in grembo, e, forse più di ogni altra cosa, il linguaggio con cui questa storia è stata raccontata: un linguaggio limpido, vibrante, in stato di grazia.

 

 M. Vittoria Vittori

«Wimbledon», III (1992), n. 32, p. 42

 

 

L’attacco è epico, uno squillo di guerra, «il principio fu questo: la telefonata…», lo svolgimento rapsodico, il finale gogoliano con una Appendice in apparenza celebrativa, in effetti esemplare di una sottesa volontà estetico-teorematica che pervade tutte le fasi del racconto. La tesi: l’uomo non può afferrare la Storia, esistono solo le piccole storie, l’arte, che prende ispirazione dalla contemplazione della bellezza del mondo, trova in essa quei misteriosi «pretesti» che guidano la memoria e la fantasia. La scrittura, poi, sempre più scarna ed essenziale indirizza semanticamente e fatti e «personaggi» nella dimensione più adatta ad esprimere il vero «sugo» della storia; che, in questo caso, è una sorta di rovesciata situazione kafkiana. […]

Questo racconto, coniuga, in una prosa prosciugata al massimo, etica ed estetica senza che però le due dimensioni emergano mai quali implicazioni nozionistiche  o divagazioni dotte. Sono, invece, come poi è sempre avvenuto nelle sue opere, sottese alla scrittura, che dalle stesse trae linfa, ordine, valore.

 

Anna Maria Catalucci

«Corriere del Ticino», 1 dicembre 1992

 

 

Il racconto di Lalla Romano non è soltanto la testimonianza di un ricordo: è anche una piccola meditazione dal vivo sul lavoro della memoria, su quei processi costruttivi e distruttivi, su quelle condensazioni e cancellazioni per cui un ricordo cessa di essere un evento e diviene un racconto. […]

Il ricordo, se uno lo rispetta, ha un po’ la logica formale di un sogno.

E in effetti è proprio un’aria da sogno, dunque precisissima e memorabile, che connota la scuola Costanza Arconati, le sue insegnanti, la sua preside «risorgimentale» e ci permette una visione molto ravvicinata di un’Italia che non solo non c’è più, ma sembra non esserci mai stata, un’Italia al femminile svisceratamente idealista e insieme squilibrata, popolata da maldestre signore e signorine cui i tempi stanno subdolamente togliendo il terreno sotto i piedi senza, per il momento, offrirgli niente in cambio.

 

Elisabetta Rasy

«La Stampa», 5 dicembre 1992

 

 

Una storia turpe, di persecuzione e di grettezza. Ma cosa diventa nelle pagine della Romano? Pur conservando il segno del tempo in cui si svolse quella storia perde le croste di giusto sdegno e di condanna che allora ogni uomo libero non poteva far mancare e che di essa costitutiva giustamente l’aspetto più significativo.

La Romano fa saltare quelle croste a colpi di scrittura e scopre la trama sottesa, quella trama di rapporti umani, di pensieri e di sentimenti, di dubbi e di consapevolezze, di emozioni e di trasalimenti, di dolcezze e di ferite che quello sgradevole episodio nascondeva. Dunque la Romano riporta alla luce il dipinto originale e l’incanto misterioso che lo attraversa: ma come poteva la scrittura riuscire a tanto? È che la scrittura non è lo strumento per un resoconto (come per gli storici): per la Romano è una sorta di occhio visionario che rielabora la realtà, inseguendola all’indietro verso la sua essenzialità e la condizione di valore inestinguibile. Con la Romano scopriamo che ciò che accade è accaduto per sempre.

 

Angelo Guglielmi

«L’Espresso», 6 dicembre 1992

 

 

Raccontare questo piccolo grande libro che si legge in tre quarti d’ora richiederebbe molte più pagine di quante siano le pagine del libro stesso. Proprio come per una poesia, per certe poesie: o ti lasci investire da ciò che sono o, se devi affidarti a dei commenti su tutto ciò che nel tuo animo mettono in movimento, c’è il rischio di non  finire mai più. Lalla Romano non è autrice del tutto estranea alla scrittura in versi: ma il carattere poetico di Un caso di coscienza è dato, secondo me, proprio dal suo essere scritto in prosa e tuttavia secondo un  modello lirico. […]

Un caso di coscienza è un grande esempio per chiunque ambisca all’arte della scrittura, una conferma se pur ve n’era bisogno, che per scrivere «in un certo modo» bisogna anche aver vissuto «in un certo modo». Fermo restando che molti possono essere, e siano, i modi di vivere e di scrivere

 

Giovanni Giudici

«L’Unità», 28 dicembre 1992

 

 

Che la forma, per Romano, abbia importanza e funzione privilegiata, è dato da un pezzo acquisito: ma Un caso di coscienza sembra proporlo in termini diversi, investendo aspetti insoliti. Il tono della narrazione è quello di un «faux exprès» prima mai esperito con senso tanto vigile della sprezzatura: di un andamento discorsivo piano, ove ogni emozione è rimossa o dissolta fino a scomparire, non alieno da accogliere banalità, scorie, cascami del linguaggio quotidiano per rilevarne, estraniandoli, il lato comico, la mimetizzata empietà. Una scrittura asciutta, leggera, veloce che allude all’inevitabilità della debolezza, della pavidità, del conformismo. […]

Quello che si offre è il distillato o meglio l’aroma di una vita vissuta con partecipazione e distacco, con un’attenzione mai distratta e mai dimesso senso di pietà: un aroma amaro e tuttavia confortante, che solo una perfetta arte combinatoria può esprimere, senza alterare la composizione. Se è lecito parlare di un’arte della tarda età, di un magistero acquisito attraverso la disciplina di una vita, direi che  Un caso di coscienza si presenta come esempio più che pertinente.

 

Giorgio Zampa

«Panorama», 21 febbraio 1993

 

 

Di primo impulso, parrebbe una cronichetta alla maniera di Sciascia; non fosse per l’inconfondibile intarsio ritmico-compositivo e per l’asciuttezza finemente cesellata dello stile, lontano dalla misura umanistica e manzoniana del siciliano. In una cinquantina di paginette magre, esso ci reca del resto  una vicenda assai modesta. […]

Una storia ben pubblica, se si vuole: rivissuta tuttavia con tale interiorità pietistica, da sfidare qualsiasi didascalismo preconcetto. […]

Una piccola storia esemplare; rivissuta senza l’ambizione ordinatrice dello storico, o la pretesa oggettività del cronista; piuttosto con la partecipazione irresponsabile del «buffone», del fool riottoso a farsi imbrigliare in partigianerie buonsensaie e prestabilite. Al lettore non disattento, dovrà bastare la fuggevole galleria di ritratti ridotti a piccoli miti personali: oltre l’imputata, la preside, l’ispettore ministeriale, il giudice. E poi l’evanescenza di ricordi posti al limite estremo della cancellazione; ma lucidi e perfetti se riferiti a minuti gesti quotidiani, al transito rapido delle associazioni e delle immagini: residui onirici diurni, di una realtà che giorno dopo giorno si va allontanando nel nulla.

 

Bruno Pischedda

«Linea d’Ombra», n. 80, marzo 1993; poi, col titolo La prosa inventata di Lalla Romano,

 in Id, Mettere giudizio. 25 occasioni di critica militante, Diabasis, Reggio Emilia 2006, pp. 40-41.