L'uomo che parlava solo
Edizioni
Prima edizione: Einaudi («I coralli»), Torino 1961.
Successive edizioni Einaudi: «Nuovi Coralli», Torino 1975.
Altre edizioni: Mondadori («Il Bosco»), Milano 1966; in Opere, a cura di Cesare Segre, Mondadori («I Meridiani»), Milano 1991, vol. I, pp. 725-62; Mondadori («Scrittori italiani»), Nota dell’autrice, Milano 1995; Oscar Mondadori, Postfazione di Dacia Maraini, Milano 1999.
Traduzione: L’homme qui parlait seul (Philippe Giraudon), Éditions de la Différence, Parigi 1992.
Titolo
Un «soliloquio», lo definì Montale, che «circonda le cose ma non le sconvolge»: l’io narrante non parla «da solo», ma si sdoppia in colui che parla e colui che ascolta, in una solitaria ricerca interiore, seduto su una panchina, di fronte al mare.
Argomento
È il monologo di un alto impiegato di mezza età, appartenente a una «curiosa sottospecie di libertino», che con sobrio dolore e rassegnazione cerca di capire il perché di un legame troncato con una ragazza, Alda, che vive ai margini della vita, e del disamore per la donna che ha sposato, Nora.
È l’unico romanzo in cui l’io narrante è un personaggio maschile, sperimentazione che l’autrice non ha più ripetuto in questa forma: trasposizione tuttavia ben riuscita, tanto da far dichiarare al poeta Vittorio Sereni: «Quell’uomo sono io».
Incipit
Tutti gli orologi si sono fermati.
Io mi trovo in bilico, fermo su un punto. No, è un filo: teso. Dovrei percorrerlo, passare di là; se sarò capace, se non cadrò nel vuoto.
Questo filo davanti a me non so nemmeno se sia il mio futuro o il mio passato.
Se mi muovo, gli orologi riprenderanno a battere. Mentre penso questo, forse ho già compiuto un impercettibile movimento. Ma non devo guardare il filo.
Non sto mica sognando. Come potrei cadere? Mi trovo nel punto più basso; sono sul fondo.
Non su un filo, ma su una strada. O forse non una strada, una piatta pianura senza strade. Posso procedere a casaccio. Quello che non posso, è distendermi e dormire. Non vorrei nemmeno.
Tengo gli occhi chiusi, e vedo.
Antologia della critica
Il perfetto equilibrio tra sensibilità e intelligenza che si riscontrava nei precedenti racconti di Lalla Romano […] è ancora presente nel suo nuovo libro: L’uomo che parlava solo. […] Il soliloquio, un andirivieni del pensiero che circonda le cose ma non le sconvolge, come accade in troppi odierni monologhi interiori, è il mezzo d’espressione dei suoi personaggi: i quali hanno poco da dire perché ignorano persino la possibilità della comunicazione.
I personaggi sono tre: lui è il monologante, di cui non sappiamo il nome: lei, Nora, è la moglie; e l’altra è la ragazza Alda, appena vista di scorcio. Lui è un impiegato «di concetto», provvisto di una sensibilità morale che di solito non viene attribuita ai burocrati. Cerca qualcosa che non ha mai trovato, forse l’amore, ma un amore ch’egli sa impossibile per un essere come lui, attratto ma insieme respinto dalla vita; e sposando Nora, perfetta «casalinga» ma fatta apposta per tarpare le sue ali, ha creduto forse di amarla. Giunto sulla cinquantina si innamora di una ragazza poco più che ventenne, di dubbia estrazione, ma viva, forse la sola creatura viva da lui conosciuta. Non le chiede molto, e lei ancor meno a lui: i due si vedono rare volte in un caffè. È chiaro che dei tre Nora è la più forte, armata di fede religiosa e di sacrosanto egoismo, Alda la sola che possieda una innocenza naturale, e lui il più indifeso: che si limita a chiedere ad Alda una ragione si sofferenza ed anche una segreta speranza. Ma quale? […]
Può bastare davvero: perché accade che un giorno, quando la scapigliata ma lungimirante Alda decide di andarsene per i fatti suoi, l’uomo che parla a se stesso si senta in possesso di qualcosa che somiglia a una verità tardivamente rivelata, a un dono che l’incredibile fanciulla gli ha fatto consapevolmente, per dare un significato alla sua vita. Ed è proprio il senso di questa scoperta che permette al monologo di seguire poeticamente ogni anfrattuosità della breve vicenda: con un accento che distingue anche una sola pagina della Romano da troppe altre di troppi scrittori e scrittrici.
Eugenio Montale
«Corriere della Sera», 21 marzo 1961
L’uomo che parlava solo, così franco e cauto insieme, ci ha proprio attratto. A partire da una delle immagini iniziali, quella bellissima del protagonista che guarda una bambina giocar da sola, riempiendo di vuoto un secchiello, parlando al vuoto. «Ma lei, perché fa questo? Perché non l’hanno portata al mare dove c’è la sabbia? Già qui non c’è sabbia, non c’è spiaggia, ma scogli… ». Non è davvero male che ogni tanto la prosa s’apra alla poesia.
Oreste del Buono
«La Settimana Incom Illustrata», 26 marzo 1961
Lalla Romano definisce il suo lavoro «un cammino dalla poesia alla prosa». In verità nelle sue prove narrative la componente lirica, evocativa, è sempre molto sensibile; sia nella qualità della prosa, che è animata da un ritmo musicale controllato e rigoroso ma intensamente avvertibile; sia nella struttura stessa dei racconti, che non intendono mai semplicemente dar conto dei fatti, svolgere una vicenda, ma piuttosto far vibrare situazioni, cogliere il riflesso spirituale della ricchezza sempre segreta e ineffabile della realtà, restituire, del dramma umano, il timbro, l’alone, più che la dura sostanza. In ciò ella è sorretta da un gusto mai corrivo, e da una precisa coscienza dei propri limiti e della propria vocazione; sì che la qualità letteraria delle sue pagine è sempre molto alta, coerente, e vorrei dire nitidamente consapevole dei mezzi e dei fini del discorso poetico che ella svolge.
Anche nel suo romanzo L’uomo che parlava solo tali qualità risaltano in piena evidenza. […]
Il personaggio maschile finisce con l’essere soffocato dal suo stesso continuo sublimare i propri sentimenti verso le donne che ama. E tuttavia il difficile esercizio della Romano, il suo tentativo di arrivare ad un ritratto psicologico senza servirsi di mezzi d’indagine psicologica, naturalistica, ma, appunto, ritmici e musicali, oltre ad essere condotto con ammirabile finezza, sortisce un suo limpido senso di poesia.
Geno Pampaloni
«Epoca», 23 aprile 1961
Siamo in presenza di una letteratura che rifugge da una presa di contatto diretta con la realtà, la quale rimane fortemente mediata da un pronunciato processo di liricizzazione quando non addirittura sfuggita in un sottile gioco di simboli e di allusioni.
Nella Romano il gioco nasce da un’innata disposizione poetica che, pur approdando ormai al genere narrativo, conserva i primitivi caratteri di evasione sognante.
Giuliano Manacorda
«Contemporaneo», IV (1961), n. 35-36;
poi in Vent’anni di pazienza, La Nuova Italia, Firenze 1972
In altri paesi, libri del genere avrebbero una risonanza ben più larga, ben più profonda: da noi non dirò che sono tenuti da parte e, tanto meno, in sospetto, ma insomma non fanno centro, come sarebbe giusto e auspicabile. […] Scrittrici come la Romano […] scrivono per tutti e di cose che interessano da vicino la nostra verità comune.
Carlo Bo
«L’Europeo», 14 maggio 1961
Il più bel racconto italiano che ho letto in questa stagione è L’uomo che parlava solo di Lalla
Romano, autrice piemontese che scrive da anni, ma che ora, con quest’operetta che è la sua terza, ha raggiunto una sua delicata e profonda maturità. […] Poiché quanto al suo genere e stile (romanzo breve, diario, meditazione?, soliloquio, rappresentazione obbiettiva, trama lirica?), L’uomo che parlava solo è inclassificabile, come tutti quei rari libri, oggi, che si attengono pudicamente e tenacemente al vero, l’autore essendosi vietato di aggiungere nulla a quel pochissimo che egli sentiva di sapere con fermezza. Anzi, «Che cosa so? A che punto, dopo certi eventi, è la mia vita?» è precisamente la domanda in cui viene fatto di sommare il senso di questo libretto. Chi vi monologa attorno, l’uomo che parla solo, è più che un protagonista, è la voce unica del racconto. […]
L’uomo che parlava solo è dunque la storia di un legame troncato che non resta che mettere dolorosamente a frutto, cioè capirlo, perché «non è stato quello che chiamano passione: è stato semplicemente verità». […]
L’amore dell’«uomo che parlava solo» non ha niente di romantico; eppure, così tepido e stanco, è vero amore.
Paolo Milano
«L’Espresso», 18 giugno 1961
Tutto il racconto è impostato in termini di «recherche». La nozione del tempo, secondo i più abituali modi di progressione narrativa, è abolita. Tutto, fin dall’inizio, è accaduto, svuotato. Non resta spazio davanti a sé per proiettare il futuro. Il presente è fatto di trasalimenti di coscienza, di reazioni impercettibili ma nuovissime che il passato provoca smantellando le nostre strutture precostituite.
Luigi Baldacci
«Letteratura», 7 agosto 1961
L’uomo che parlava solo: un libretto sottile, con la copertina bianca e un olio di Casorati. Lo ricordo come fosse oggi: lo leggevo a letto la notte, lo leggevo mentre mangiavo, me lo portavo perfino in tram. […]
Trovavo lo stile di Lalla Romano luminoso e struggente. Mi faceva pensare alle stelle; c’era una lontananza del narrratore dall’oggetto narrato, talmente assoluta da risultare irrecuperabile e perciò terribile. Nello stesso tempo sentivo una vicinanza ironica e sospesa, caritatevole e affettuosa. Ecco, da questa contraddizione, penso oggi, nasceva la bellezza ammaliatrice di quel libro.
Da allora ho letto tutti i romanzi scritti da Lalla Romano, amandoli più o meno, ma sempre apprezzando questa sua capacità di volare con sicurezza nei cieli notturni, come un aereo in apparenza cieco e senza luci, ma che possiede nel suo cervello segreto la conoscenza della rotta.
Dacia Maraini
L’ironica geometria, in A. Ria (a cura di), Intorno a Lalla Romano. Saggi critici e testimonianze, Mondadori, Milano 1996, pp. 230-31; poi Postfazione a L. Romano, L’uomo che parlava solo,
Oscar Mondadori, Milano 1999, pp. 185-86