La fortuna critica

Un’attenzione critica molto qualificata ha seguito fin dall’esordio l’opera di Lalla Romano. La raccolta di poesie Fiore (1941) era piaciuta a un lettore raffinato come Ferdinando Neri, che su «La Stampa» l’aveva definita «esempio di arte schietta, che si accorda con un dono nativo di sensibilità». Già in quell’occasione Gianfranco Contini, in una lettera all’autrice, si era detto colpito «dall’aria di intensità e di indipendenza» che risultava da quei versi, che gli richiamavano «il clima dei frammenti saffici o di certe poetesse del Cinquecento». In seguito, è stato Cesare Segre a insistere sull’importanza della poesia nella successiva produzione letteraria di Lalla Romano, fin dalle Metamorfosi del 1951, «libro chiave» che anticipa molto della futura attività della scrittrice, a cominciare dal «paesaggio vissuto» o dal «tema del sogno, come fondatore di realtà alternative». «Già quel primo libretto – scrive Segre – costituisce un cospicuo esperimento di messa in rilievo delle parole e di potenziamento delle pause», che saranno poi tipiche della narrazione in prosa di Lalla Romano.

Linguaggio ancora più concentrato è quello della raccolta poetica L’Autunno (1955), «autunno luminoso come una primavera» (Italo Calvino): qui lo stile si fa «ancor più energico, smagrito, spogliato» (Ferdinando Neri). Nella Nota introduttiva, Carlo Bo scrive: «Non è facile trovare ai nostri giorni un’altra testimonianza così felice e tanto libera da suggestioni esterne, tanto disancorata da memorie di massimo risultato poetico». E, a proposito dell’altro libro di poesie, Giovane è il tempo (1974), nell’Introduzione alle Opere di Lalla Romano, edite ne «I Meridiani» Mondadori, Cesare Segre nota che «la storia poetica partita dall’effusione di un sentimento» diventa «una risoluta riflessione di dimensioni escatologiche».

L’unità d’ispirazione e di tematiche è una costante dell’autrice, sia nell’espressione lirica che narrativa: «La poesia resta per Lalla Romano uno schermo fisso di immagini pienamente soddisfatte e risolte nel passato o meglio nel tempo della memoria» (Carlo Bo). E la memoria – memoria selettiva e dunque creativa – è un filtro attraverso il quale la scrittura di Lalla Romano si rapporta alla sua vita, costituendo ogni volta, per ogni romanzo, una specie di incontro con se stessa, con i vari «ospiti» dei suoi libri e, in questo modo, con i suoi lettori. Così Lalla Romano «è giunta a far parlare l’esistenza, nelle sue pieghe più intime e quotidiane, con una sorprendente e misteriosa trasparenza: ha saputo sentire la memoria del passato come qualcosa di “presente”» (Giulio Ferroni, Storia della letteratura italiana. Il Novecento, 1991).

La notorietà di Lalla Romano si deve a Montale, che nel 1953, in occasione dell’uscita del romanzo Maria, pose all’attenzione generale «la poesia dei petits riens» insita nel romanzo. Nel risvolto, Vittorini indicava nel libro «una storia di rapporti umani, che si realizzano come rapporti ritmici e che tuttavia tendono a mostrare, malgrado il loro ripetersi, quanto di unico e insostituibile, di dato una volta per tutte, vi sia in ogni individuo».

Quando alcuni anni più tardi, nel 1964, uscì La penombra che abbiamo attraversato, Montale vi ritrovò la poesia delle «cose piccole, ma importanti, che lasciano un segno nella nostra vita». Nel risvolto di copertina Calvino commentava: «L’immagine proustiana del titolo significa qui l’infanzia, età in sé folgorante, ma ombrosa, oscura per chi la guarda dall’altra sponda, quella della maturità; ma è anche la vita stessa, lo spazio che deve essere riattraversato per ritrovare la tormentosa età, nella quale a nostra insaputa tutto era stato giocato una volta per tutte». Aldo Camerino ha osservato che la scrittrice è capace di rendere romanzo «tutto quello che tocca»; e Carlo Betocchi, sempre a proposito de La penombra che abbiamo attraversato, ha scritto: «La memoria è decantata, la visione nitida a perpendicolo sul passato e sul presente, che non si confondono l’uno nell’altro, come quando su una strada solitaria ed ignota rintocca l’eco dei nostri passi».

Ma, se le opere di Lalla Romano erano sempre state seguite da una cerchia di fedeli lettori, e apprezzate da storici e letterati, poeti e scrittori, solo nel 1969 un suo volume, Le parole tra noi leggere, incontrò un grande successo da parte di un pubblico più vasto e meno specialistico. Eugenio Montale, a proposito di questo libro, ha scritto: «Se c’è ancora qualche lettore capace di amare una poesia incapace di esibirsi come tale, questo è un libro che può fare per lui». Il romanzo vinse il Premio Strega e fu un best seller. Il successo era dovuto indubbiamente alla novità del libro, che indicava «una nuova strada da percorrere e da proporre» (Anna Banti), e probabilmente anche al contemporaneo fenomeno della contestazione, di cui il figlio, protagonista di queste pagine, era stato per certi versi un precursore.

Se alcuni critici ritengono Le parole tra noi leggere uno dei migliori romanzi di Lalla Romano, tutti sono sempre stati unanimemente d’accordo sulla «classicità» della lingua e dello stile, fin da quando Pasolini nel 1973, a proposito de L’ospite, commentava: «Il libro è scritto in una lingua pura, eletta, selettiva […]: lo spirito, un certo spirito che presiede alla lingua della poesia, presiede a questo breve romanzo in prosa, fatto di brevi lasse, leggere e assolute». Quando nel 1974 uscì Diario di Grecia, Calvino ne sottolineò l’«aerea semplicità di stile» e Montale la scoperta della Grecia come «modo di vivere nell’eternità». Nel 1981, dopo la pubblicazione di Inseparabile, Dante Isella ha scritto all’autrice: «Il segno della riuscita è la cristallina scrittura, che restituisce in luce (pulita e ferma) la pena del vivere; e la calibratissima misura di base (il foglietto di “diario”, come stanza o lassa di una costruzione sapientemente organizzata nei suoi tre tempi narrativi)».

L’apice della qualità narrativa, secondo Maria Corti, è stato raggiunto da Lalla Romano con Nei mari estremi (1987), in cui l’autrice «ci mette sotto gli occhi immagini trascorrenti e istantanee, ma indelebili, di tutti gli aspetti della vita ». È un libro che «non tace nulla e a un tempo è lontano da ogni forma di esibizione» (Giovanni Raboni). Qui Lalla Romano supera ogni reticenza, ogni riserbo, ogni rispetto umano, ogni convenzione: con «lacerante scavo interiore» (Giulio Ferroni), amore e morte vengono narrati come momenti forti della vita, con «spietata pietà» (Raboni), con una descrizione decisa anche degli aspetti più segreti, intimi, personali, fisici. Si intrecciano avvenimenti e sentimenti, fatti e pensieri. Come in uno spartito musicale, le 104 «variazioni» di cui il libro si compone inseguono i temi universali e, insieme, quotidiani della vita. Per Cesare Segre, «Lalla Romano ha sempre cercato una verità che non è quella fattuale, ma qualcosa di più profondo, posto in una zona impervia fra filosofia e religione. Nei mari estremi segna il raggiungimento di questa verità, è un punto di non ritorno, per lei, e il punto più avanzato a cui il lettore, o il critico, sia stato trascinato dai suoi libri».

Negli anni Novanta l’opera di Lalla Romano è stata ulteriormente valorizzata dalla critica. Un conclamato consenso ha accolto i suoi libri dopo la pubblicazione – iniziata nel 1991 – dell’intero corpus delle sue opere nella prestigiosa collana «I Meridiani», edita da Mondadori: consacrazione riservata a pochi scrittori viventi e che inserisce di fatto Lalla Romano fra i classici della letteratura italiana del secondo Novecento. I due volumi delle Opere costituiscono un’edizione critica particolarmente accurata, dovuta alla sapienza e alla precisione filologica di Cesare Segre, che vi ha premesso una lunga introduzione (a tutt’oggi il saggio critico più rilevante e approfondito sulla figura di Lalla Romano). Anche Giulio Ferroni, nella sua Storia della letteratura italiana, pubblicata da Einaudi nel 1991, le ha riconosciuto un ruolo importante nel panorama letterario, dedicandole un intero paragrafo: «La Romano ha raggiunto un essenziale equilibrio stilistico, grazie a una lingua recisa, fatta di frasi semplici, come ritagliate da uno spazio più vasto e magmatico». Ferroni sottolinea inoltre in tutta la sua opera «la paziente investigazione dell’esistenza e delle esistenze che Lalla ha fatto con la sua scrittura, la “cura” con cui ella ha ritrovato, “salvato”, “inventato” i momenti preziosi, le persone e i luoghi che ha attraversato». Quando, sempre nel 1991, viene pubblicato Le lune di Hvar, Carlo Bo definisce il libro «il testamento» di Lalla Romano, «una sorta di ricapitolazione per essenze di tutto il suo lavoro, il suo testo più puro ed essenziale».

Tuttavia, pur annoverando questi prestigiosi riconoscimenti, le opere di Lalla Romano non hanno ancora ricevuto quell’ampio consenso critico che lo spessore della sua produzione e l’alta qualità della sua scrittura forse meriterebbero. Manca ad esempio una monografia critica aggiornata sulla sua opera complessiva. Forse questa mancanza è dovuta alla sua «atipicità», quindi alla difficoltà per gli «addetti ai lavori» di inquadrare la sua opera nelle varie tendenze che si sono succedute in letteratura in questi ultimi anni. Questa libertà «al di fuori di ogni schema» (Carlo Bo) le è costata cara. Non aver fatto parte di gruppi o tendenze le è valso l’isolamento e l’incomprensione. Ma forse proprio questo isolamento e questa libertà hanno prodotto il tratto inconfondibile della sua scrittura, quella «capacità straordinaria di reinventare letterariamente i materiali di realtà autobiografica dei quali si serve nelle sue rappresentazioni della vita dei sentimenti, condotte senza traccia di sentimentalismo o di languore patetici, anzi con criticismo sempre molto lucido e molto serrato» (Vittorio Spinazzola). Un altro motivo del ritardo della «fortuna critica» di Lalla Romano può essere dovuto al suo aver pubblicato piuttosto tardi (Fiore, 1941), dopo aver praticato professionalmente per oltre vent’anni la pittura. Alla narrativa poi è arrivata ancora più tardi, a quarantacinque anni, nel 1951, con Le metamorfosi. Ma finalmente oggi, scrive Carlo Bo, «il consenso di quanti credono ancora nella letteratura» le giunge proprio come premio alla sua fedeltà.

 

I critici, e in particolare Segre, hanno tentato di indicare le chiavi di interpretazione dei suoi scritti, additandole nella ricerca della verità, senza psicologismi, attraverso una continua interrogazione dei gesti, delle parole, dei documenti propri e altrui. A proposito di Una giovinezza inventata (1979) Calvino aveva notato: «È il senso di verità che sostiene tutto la vera attrazione del libro – trasmessa da questo pulviscolo di avvenimenti nella prospettiva della memoria». La ricerca della verità è accompagnata dalla constatazione dei limiti delle possibilità umane di conoscenza: il fondo drammatico delle opere di Lalla Romano deriva proprio dalla consapevolezza di aver scoperto qualcosa, ma di non aver scoperto tutto. E in questa ricerca di verità, secondo Segre, è fondamentale la teoria del punto di vista, che è prevalentemente personale: da qui l’apparenza di autobiografismo, a lungo un luogo comune della critica. Il punto di vista personale è in fondo uno strumento euristico che sviluppa la capacità di percepire i vari elementi per ricostruire il punto di vista altrui. Ecco perché, come punti di partenza, sono importanti gli oggetti: lettere, documenti, fotografie. Questa tecnica di «cosificazione», già identificata da Carlo Bo nel 1956, è stata considerata da Segre come determinante nella scrittura di Lalla Romano. L’oggettualità viene a contatto con la soggettività della scrittrice, determinando un modo di raccontare quasi investigativo: i documenti e le fotografie diventano segni che, attraverso la scrittura, rivelano il loro segreto. Né va dimenticato che la verità ricercata da Lalla Romano è «la verità degli animi»: da qui deriva la presenza costante del «problema morale» nella sua scrittura, fino al limite di Un caso di coscienza (1992).

Un’altra caratteristica della sua produzione, messa in luce costantemente dalla critica (Neri, Montale, Bo, Pasolini e soprattutto Segre), è la scrittura fortemente sperimentale: ogni libro, fin dal primo, Le metamorfosi, presenta delle novità nei registri usati, nel tipo di esposizione. Proprio nella Postfazione all’edizione Einaudi Tascabili de Le metamorfosi (2005) Andrea Cortellessa evidenzia come «il nitore d’immagine e la dizione classica di Lalla Romano abbiano valore reattivo. Per non dire, proprio, esorcistico». Il critico legge nel tema della metamorfosi, del sogno, un continuum che attraversa l’opera dell’autrice, dai primi testi poetici («Entrò nel sogno una farfalla…», Fiore, 1941) alla vita «assolutamente irreale» dell’ultimo capitolo di Ho sognato l’Ospedale, intitolato proprio «Metamorfosi».

 

La scrittura di Lalla Romano ha continuato sorprendentemente a rinnovarsi con una straordinaria vitalità, anche nei commenti ai suoi dipinti, come quelli raccolti in Lalla Romano pittrice (1993), di cui Segre scrive: «Con queste schede Lalla Romano ci dà un esempio inarrivabile di come spesso si possano collegare pitture e scritti narrativi». È come se ogni volta rinascesse la possibilità di guardare, interpretare e mostrare il mondo in modo diverso, quasi come una continua sorpresa.

Nel 1994 è stata pubblicata negli Oscar Mondadori una nuova edizione di Nei mari estremi, con un testo inedito, intitolato «Minima Mortalia», scritto durante la malattia e subito dopo la morte del marito Innocenzo. Nel commentarlo, Cesare Segre ha messo in luce alcune corrispondenze fra le pagine in vita e quelle in morte, evidenziando come è percepita diversamente la morte quando «è una minaccia incombente o un limite già superato».

Nello stesso anno, 1994, si è tenuto un convegno di critici letterari e storici dell’arte («Intorno Lalla Romano: scrittura e pittura»), allo scopo di valutarne l’opera complessiva. Gli atti, con altri saggi (Intorno a Lalla Romano. Saggi critici e testimonianze), curati da Antonio Ria e pubblicati nel 1996 da Mondadori, contengono testi – fra gli altri – di Carlo Dionisotti, Carlo Ossola, Maria Corti, Stefano Agosti, Giovanni Raboni, Vincenzo Consolo, Giuseppe Pontiggia. Viene sottolineato in particolare l’accostamento molto articolato che emerge fra scrittura e pittura e che costituisce una delle novità della sua opera. In particolare, Carlo Bo ha definito la sua narrazione di «una libertà al di fuori di ogni schema». Maria Corti ha evidenziato invece come l’autrice abbia superato «il traguardo dei tradizionali generi letterari», riuscendo a far coincidere il narratore esplicito, quello implicito e il personaggio con l’autore. «A fondere queste entità narrative – conclude la Corti – è la scrittura, calcolatissima e insieme fresca, dai risvolti ironici e dalla costante carica intellettuale». Dalle varie analisi risulta evidente la conferma della tensione fra classicità e modernità, fra ricerca d’assoluto e capacità sempre nuova di sorprendere (Carlo Bo). La conclusione è che non si può cristallizzare la sua ricerca, ma solo avviare «approssimazioni» temporanee, fra la sua classicità rinnovata e la sua scrittura sempre, fin dall’inizio, sperimentale.

Gli ultimi libri, da Ho sognato l’Ospedale, 1995 (di cui Maria Corti rileva «la forza dello sguardo e la capacità visionaria»), a In vacanza col buon samaritano,1997 (che Ezio Raimondi definisce «storia ed enigma» in «un romanzo sapienziale»), e infine a Dall’ombra, rappresentano l’approdo a definitivi traguardi del rapporto memoria/tempo. Fulvio Panzeri sottolinea come le ultime prove della scrittrice siano particolarmente innovative per la struttura della narrazione: «storie non più tradizionalmente affrontate in un corpo unitario, quello della scrittura, che si espande fino a rivelare la profondità del centro espressivo, ma un percorso inverso che sceglie la frammentarietà di quel profondo sentire per ricondurre a esso l’esemplarità delle storie».

Alla genesi della scrittura di Lalla Romano c’è proprio un processo di «trasfigurazione», di «invenzione» della realtà e della vita. Il tema del tempo e quello della memoria si intrecciano e diventano la struttura teorica portante della sua scrittura. E ogni libro sorprendentemente termina con un’apertura verso nuovi passaggi, nuove vie di sperimentazione, fino a Diario ultimo (pubblicato postumo nel 2006), in cui a pochi mesi dalla morte, quasi cieca, fissa memorie ed emozioni. Sergio Givone indaga il significato di questa estrema testimonianza: «Che cosa significa infatti scrivere, se non strappare un senso possibile al nulla e al silenzio? Sia pure per rituffare nel silenzio tutte le voci del mondo, tutti i suoni e i simboli, perché come dice Lalla Romano esso “contiene tutte le musiche e le parole”».

 

Un discorso a parte merita il riconoscimento dell’opera pittorica di Lalla Romano, che, negli anni più recenti (dal 1993 in avanti), ha suscitato l’interesse della critica e del pubblico, non più incentrati solo sulla sua attività letteraria: merito anche della collaborazione della scrittrice con Antonio Ria, fotografo e compagno premuroso dopo la morte del marito Innocenzo. Nel 1993, in Lalla Romano pittrice, Federico Zeri ha riconosciuto che i suoi dipinti e i suoi disegni «sono sempre sorretti da una solida e meditata sostanza figurativa, e che il loro taglio, le loro composizioni rispondono a precise esigenze di razionalizzazione». E, a proposito del rapporto fra scrittura e pittura, così concludeva: «Il suo è un raro caso di identità tra espressione letteraria e creazione di immagini, nel medesimo solvente severo, scarno, privo di compiacimenti, nitido ed essenziale».

 

L’interesse per l’immagine – la pittura prima, la fotografia in seguito – fa sì che Lalla Romano crei un genere letterario nuovo: il racconto fotografico o «romanzo per immagini». Già in Lettura di un’immagine, del 1975, commentando le fotografie scattate dal padre Roberto a Demonte, Lalla Romano scriveva: «In questo libro le immagini sono il testo e lo scritto un’illustrazione». Questo volume – in seguito al ritrovamento di altre lastre fotografiche – riceve una nuova, splendida edizione nel 1986 col titolo Romanzo di figure, divenuto poi, nel 1997 – con l’acquisizione di una seconda parte inedita – Nuovo romanzo di figure. Lo storico dell’arte Francesco Porzio nel 1996 scrive che Romanzo di figure «forse, assieme a Le metamorfosi, è il più sperimentale fra i romanzi della Romano: intendo sperimentale non nel senso precario delle avanguardie (si tratta, anzi, di un’opera maggiore), ma come estrema concentrazione dello strumento narrativo; la ricerca, appunto, di una dimensione espressiva misteriosa e irrevocabile, presente e lontana come quella del sogno. […] In Romanzo di figure l’immagine è trattata come il sogno, o come la memoria, proprio per questa commissione di finitezza e infinitezza carica di significato; ma anche la parola riproduce l’esattezza di questa unione, che è l’esattezza di ogni immagine significativa. I commenti dunque non “spiegano” ma, al contrario, rafforzano il valore assoluto dell’immagine, che sta appunto in ciò che non si esprime direttamente, pur assumendo una veste compiuta e definitiva: “l’immagine” – si può parafrasare – ”è la sua propria interpretazione”. Così essa viene ad un tempo chiarita e fatta segreta, fissata e resa universale; viene privata del suo valore contingente ed elevata in una sfera contemplativa. […] Ciò che rende singolare – forse senza riscontro – Romanzo di figure – è che la parola e l’immagine non si illustrano a vicenda, ma partecipano attivamente alla costruzione dell’opera. […] La parola – si può dire – fissa l’immagine come un reagente chimico, producendo un terzo elemento indefinibile […]: il loro scopo è creativo, vitale. […] L’immagine è inconsapevole; la parola la rende consapevole e la riscatta. Questo senso di consapevolezza che acquistano le immagini al di là della loro timida, troppo esteriore natura, forse è il teatro più tipico di Romanzo di figure; da esso, mi pare, scaturisce il meccanismo poetico. […] Non solo queste immagini, ma tutto ciò che è rivissuto artisticamente è salvo per sempre, perché ha acquisito un significato».

Nel 2000 esce un altro album fotografico, Ritorno a Ponte Stura («Ponte Stura» sta per Demonte): ancora fotografie del padre, Roberto Romano, divise in gruppi, precedute da un breve testo di Lalla, in cui si ritrova «il segreto di ogni esistere autentico» (Ferroni). Questo volume è «un ritorno alle origini, una discesa alle madri, come diceva Goethe, ferma, responsabile ed esemplare» (Carlo Bo); esso sancisce il definitivo approdo teorico e narrativo del rapporto memoria/tempo e fa scrivere a Mario Fortunato che è «un’inattesa reinvenzione dell’arte del narrare», di una «leggerezza che fa pensare a uno stile ormai alle soglie di una sorta di zen letterario».

 

ANTONIO RIA