La treccia di Tatiana

La treccia di Tatiana, Fotografie di Antonio Ria, Einaudi 1986

Titolo

Copertina Treccia di TatianaUna festa in giardino, una giovane ragazza con una lunga treccia, un fotografo in vacanza e una scrittrice ospite: nasce così il racconto fotografico La treccia di Tatiana, ironico e leggero, associato al nome della protagonista, Tatiana, del romanzo di Puskin, Eugenio Onieghin, messo in musica da Ciajkovskij.

 

Argomento

La treccia di Tatiana nasce da una serie di fotografie di Antonio Ria che fissano alcuni momenti di una festa in giardino e che l’autrice raccoglie in scansioni narrative, organizzando quei segni in un racconto che ha la sua trama: un’allegoria da «leggere» come una nuova forma di romanzo.

 

Incipit

    Questo libro è nato – come tutto ciò che nel nostro tempo ci appare nuovo – dal caso e dalle necessità (mi servo del famoso titolo di un libro famoso). Il termine «caso» indica qui l’incontro con un certo numero di fotografie. Il fatto che io avessi preso parte alla «festa in giardino», (occasione per il fotografo), non fu determinante; anzi, indifferente. Che cosa è sopravvenuto? La mia attenzione. Prima fu proprio «la treccia»; ed è subito stata «di Tatiana». Si era insinuata la letteratura: ma non era ancora la chiave. La novità fu che potevo leggere quelle e le altre immagini direttamente – liberamente – nel loro linguaggio di segni come nel mio di parole. Perché anche la fotografia è scrittura.

  Lalla Romano, da Nota dell’autrice a La treccia di Tatiana


Antologia della critica

 La convinzione che «anche la fotografia è scrittura» guida La treccia di Tatiana.

Scandito in capitoli, come un romanzo o una azione teatrale, ha un preludio, un ingresso, vari movimenti interni, fatti di a solo e coppie, fino a giungere al suo epilogo. […]

La scrittrice affianca alle foto frasi e titoli, che possono indurre il lettore a combinare storie virtuali, possibili. Ma l’autrice non ha «queste ambizioni»: «Non è un gioco alla Calvino. Io preferisco alludere – dice – mi piace di più».

Nico Orengo
«La Stampa», 19 aprile 1986

 

L’occhio della scrittrice scruta al di là delle apparenze e in un gesto, nella treccia di una ragazza, nella posizione di due persone nello spazio, scopre la segreta intelligenza dell’inespresso, quell’intelligenza «delle cose» che si rivela in rari, privilegiati momenti alla sensibilità poetica. […]

In La treccia di Tatiana l’originalità di questa «tecnica» narrativa è ancor più accentuata. Le immagini non sono supporto di una ricerca nella propria storia sepolta, ma «momenti di essere» fermati nello spazio e nel tempo di una storia qualunque, quotidiana storia di tutti.

Sandra Petrignani
«Il Messaggero», 7 maggio 1986

 

La scrittrice ripete, come per farsen un motto, il titolo della famosa opera di Jacques Monod, Il caso e la necessità. Prima fu il caso; poi, viste le fotografie scattate quel giorno, ne derivò la necessità. Non era più possibile lasciare a se stessi quei volti, quegli occhi, quei capelli, quei gatti che camminano sul prato. Bisognava comporli insieme, fargli raccontare una storia che essi non sapevano di aver raccontato. […]

Lalla Romano fa coincidere il proprio sguardo con quello della macchina, nella convinzione che una fotografia può valere per l’epoca o il minuto in cui fu eseguita quanto per l’epoca o il minuto in cui è stata vista. È lo stesso destino dei libri. Borges dice che «un libro lo si legge sempre per la memoria»: nelle pagine è come se incontrassimo tutto il tempo che è trascorso, secoli o decenni o mesi non importa, da quando fu scritto fino a noi.

Giulio Nascimbeni
«Corriere della Sera», 7 maggio 1986

 

Ria è l’autore delle fotografie del testo, mentre la Romano ha scritto un testo che, a dire il vero, ha già fatto discutere, apre nuovi orizzonti all’armonioso incontro tra l’immagine fotografica e la scrittura, non tanto visti come due strumenti linguistici a se stanti, ma, in un processo di simbiosi, come strumenti unificati per decodificare realtà e allegorie, sentimenti e viaggi nella memoria che nell’uomo hanno il loro punto di riferimento.

R. A. R.
«Libera Stampa» [Chiasso], 17 maggio 1986

 

Lalla Romano fa l’impossibile: non vince il mutismo della fotografia e non dà corpo al racconto di parole; mostra l’impotenza e la velleità della letteratura quando rinuncia a se stessa e scende a patti, e allo stesso tempo non rinuncia a morire. Un ibrido inquietante e affascinante, uno studio sperimentale sui limiti. […]

In realtà le foto sono solo quello che sono: mentre le parole, che potrebbero essere tutto quanto noi vogliamo siano (tutto perché la letteratura è il mondo), sono poche e soprattutto al di qua del limite. Per cui, nella loro pochezza e nel loro orgoglio, risultano ancor più cariche di letteratura.

Claudio Marabini
«Il Resto del Carlino», 20 maggio 1986

 

Può sembrare che le immagini siano prese in prestito per il romanzo, ma non è così. È il romanzo che è scritto insieme con le parole e le immagini.

La narrazione scorre così piacevole e coerente in un alternarsi di parole e fotografie che sono di Antonio Ria, un fotografo che ha saputo svolgere il suo lavoro realizzando immagini nitide con un impianto fotografico di valore.

 Giovanni Semerano
«Il Tempo», 24 maggio 1986

 

Le fotografie, messe insieme, finiscono per comporre una narrazione ideale, con il suo prologo, i suoi capitoli, il suo epilogo. Lalla Romano non ha fatto altro che aggiungerci brevi didascalie, a volte solo una frase, una battuta un po’ enigmatica, per lasciare spazio alla fantasia del lettore. […]

Lalla Romano dice che l’avvicinarsi e il disporsi in sequenze delle immagini è avvenuto «per necessità»: e nello stesso tempo, possiamo dire noi, per pura, gratuita invenzione.

Gaetano Afeltra
«Il Mattino», 3 giugno 1986

 

Per immaginare un libro come La treccia di Tatiana occorre innanzi tutto essere poeti. Che cos’altro è infatti la poesia se non il tentativo di dar voce alle cose, quelle oscure come quelle chiare?

Il linguaggio che la scrittrice vuole esplorare è quello fotografico. […]

Ogni fotografia è accompagnata da una didascalia che suona a volte con la limpida essenzialità di un verso: «L’occhio placido riposa dentro la morbida architettura della giovinezza» si legge accanto a un bel viso di fanciulla; ma ogni immagine va anche oltre se stessa e tende, con le altre, a farsi storia secondo una nascosta struttura che sulle prime ci sfugge. […]

Poi la festa finirà e, come su ogni rappresentazione conclusa, anche su questa calerà la tela. E, mentre la treccia di Tatiana rimarrà inestricabile, l’album di fotografie si rivela essere un poemetto allegorico, il cui senso, ci pare di capire, è la sua profonda analogia con la vita.

Bruna dell’Agnese
«Il Gazzettino», 27 giugno 1986

 

Il lettore che già conosce Lalla Romano non tarderà a ritrovare ed apprezzare in questo suo ultimo lavoro alcuni dei segni distintivi che ne informano la scrittura: la concentrazione espressiva, la concisione e concretezza verbale, la densità intellettuale ed emotiva, la meditazione partecipe ma anche ironica sul mistero / miracolo della vita. Solo che qui la scrittura – e non potrebbe essere altrimenti – è piegata e come aggiogata ad una laconicità ancora più severa. L’asciuttezza e la secchezza delle «didascalie» apposte alle fotografie solo raramente si sciolgono in diffusa discorsività. Più spesso vestono la misura del frammento lirico, dell’illuminazione folgorante.

 Michela Vanon
«Photo», XII (1986), n. 133, p. 24

 

Il fotografo è noto ed è noto il suo interesse professionale per la ricerca antropologica. Le parole di Lalla Romano sono concatenate in modo da raccontare una storia e non essere soltanto semplici didascalie. Il volume è non soltanto un racconto da gustare ma anche una preziosa scuola: da consigliare, di cuore, a chi intende approcciare la fotografia di ritratto; e a chi ama dibattere su come vadano lette, con interpretazione più o meno arbitraria, le fotografie. Davvero interessante.

Maurizio Capobussi
«Tutti Fotografi», luglio / agosto 1986

 

Il rapporto letteratura-fotografia è rarissimo. In tutta la storia della fotografia si contano tre / quattro esempi di interpretazione di testi letterari. Un caso unico, poi, è lo scrittore che illustra le immagini. La treccia di Tatiana è un’opera a quattro mani che «si legge» come un poema visivo in versi sciolti. Antonio Ria, fotografo milanese con una spiccata predilezione per la ricerca antropologica, ha colto personaggi e situazioni durante un incontro mondano, lo accompagnava la scrittrice Lalla Romano, che viste le fotografie ne scoprì l’intensità di un racconto. Non era la verità dei fatti, era la verità che lei sentiva guardando le immagini. Piccoli particolari di persone ed oggetti, uno scorcio, un atteggiamento che parlavano di storie fantastiche. […]

La fotografia è stimolo per la libertà delle interpretazioni emotive ed intellettuali. È chiaro che la nuova avventura della Romano è stata possibile grazie alla qualità del lavoro di Ria. A volte ironico e dissacratore, il fotografo ha evidenziato l’obsoleta vacuità di certi rituali; divertito ha ingigantito la sicurezza di un potere presunto e l’inutile sberleffo di chi crede di possedere la saggezza del mondo; il suo animo si è addolcito di tenerezza di fronte all’ingenuità di Tatiana, del cane e del piccolo gatto. Sensibilità di Ria nel variare le modulazioni di realtà e sentimento.

Giuliana Scimè
«L’Unità», 6 luglio 1986

 

Il lato più indistinguibile nella narrativa di Lalla Romano va ricercato nella sua capacità di essere attenta ad un numero assai vario di registri comunicativi, tali da permetterle di passare indenne, oltre le mode, oltre le discussioni culturali, con la limpidezza immutabile della sua prosa, sempre, rivelantesi, entro una natura di costruzione ardua, fuori dagli schemi. È quello che succede anche col romanzo La treccia di Tatiana. […]

Ciò che sorprende è proprio questo arduo tentativo di superare quella sorta di baratro o abisso (che è invece solo un taglio, una breve dissolvenza di forma) che s’instaura tra parola e immagine, tra sillabe e colori, tra l’azione mormorante delle frasi e l’impulso al figurativo. […]

Il segno distintivo di quella futilità di cui la Romano ci annuncia tutta la tragica allegrezza risiede nella cognizione continua di un senso di perdita: il tempo, che tanto ci annienta e, nella medesima sostanza, sovrasta, viene a cancellarsi in quello spreco, quasi lo si temesse, quasi non si volesse d’esso aver alcunché di traccia distinguibile. […]

Ne La treccia di Tatiana, la fotografia è flusso poetico, come la parola che non legge l’immagine, non la decodifica come funzione, ma l’accompagna nei gorghi di una tensione morale, tale da essere testimonianza di un tempo che ha scelto il frammento come sua espressione massima. La Romano, nell’impostare il suo nuovo libro, ha fatto sua questa considerazione, o pur solo intuizione, e su d’essa ha costruito il libro che da sempre avrebbe voluto fare, quel libro che era tentazione assoluta della sua persona. […]

Ora quella tentazione ha avuto un suo sibilante esito: ha percosso l’accademico mondo delle nostre lettere, ributtandoci sulla scia europea de La camera chiara di Roland Barthes, tentando una strada che non è affatto raffinata esibizione di una signora, ma che dimostra quanto sia labile ogni condizionamento di forma. La poesia, il suo fiato può percorrere ogni segno, ogni creazione, purché la chimera abbia a fondamento e meta, come nella Romano, una propria lancinante dimensione di verità.

 Fulvio Panzeri
«Avvenire», 2 agosto 1986