Nuovo romanzo di figure

Nuovo romanzo di figure, Fotografie di Roberto Romano, Einaudi, 1997

Copertina Nuovo romanzo di figureIncipit

Si sarà indulgenti, spero, con una «debolezza» dovuta alla mia – per altro non così eccezionale – tarda età. La debolezza è questa: una maniera molto ristretta di considerare le foto ritrovate, che hanno consentito la nuova edizione. Gratificata dal «regalo» dell'Editore, mi sono concessa questa libertà e questo limite.

Il primo commento riguarda ovviamente l'immagine che orna la nuova copertina, allusiva al tema dell'«amore coniugale» già celebrato nel testo precedente.

Lalla Romano, dalla Introduzione alla II parte, Nuove figure.

 

Antologia della critica

La prosa è sempre poetica. Si deve aggiungere che è costretta in un’essenzialità voluta nel bianco della pagina per rimanere in secondo piano rispetto alle immagini che campeggiano sovrane. Il romanzo della famiglia e della società, percorso da un sottile filo di ironia e da grande amore, si completa a chiusura del libro, quando, a lettura finita, riscorrendo le foto, ogni tassello si inserisce, nella memoria del lettore, al posto giusto.

Anna Grazia D’Oria
«L’immaginazione», n. 142, novembre 1997, p. 7

 

Sull’onda della memoria e delle emozioni, Lalla Romano ha voluto rivedere, correggere e mutare il proprio passato. E se l’operazione regge, e aiuta, sul piano dell’esistenza, perché allora non provarci anche col proprio lavoro? Queste immagini e queste parole, infatti, scaturiscono direttamente da quelle di Romanzo di figure (1986) e Lettura di un’immagine (1975). Ed ecco Nuovo romanzo di figure, un seducente tuffo nello ieri-che-è-oggi fermato in un fugace lampo di magnesio. Quello d’un signore di mezza età che in un paese della provincia di Cuneo, agli inizi del secolo, posa la sua macchina fotografica nelle strade di montagna, fra rocce e case di contadini, o sui viali deserti di Montecarlo. […]

C’è forse qualcosa di freudiano in queste pagine, la ricerca di un papà tanto amato e stimato, d’una mamma così segreta, fragile e forte insieme, una bella signora con in braccio una pupattola incuffiettata. […]

«Davanti alla canonica di Don Maria, cacciatore, amico di mio padre – ritratto di un cane – l’immagine basta a se stessa».

Verissimo, le immagini bastano a se stesse. È proprio così. E la fotografia diventa scrittura e la scrittura fotografia. Difficile dire chi, in questo Nuovo romanzo di figure, sia il racconto e chi lo sguardo. Chi tracci la trama d’una storia infinita, d’un microcosmo ritrovato a cui s’affacciano personaggi vecchi e nuovi, ma vecchi per modo di dire: come lo zio Giuseppe ch’era nuovo per il «primo» Romanzo di figure, ma non per i lettori di Una giovinezza inventata. […]

Ci si potrebbe fermare qui, tuttavia il desiderio di comunicare al lettore la forza, la passione, la vitalità che invadono chi si soffermi su questa dolcissima forma di poesia fa sì che la parola fine sia praticamente impossibile da scrivere.

Stefano Jesurum
«Corriere della Sera / Io Donna», 6 dicembre 1997

 

Ci sono libri su cui non basterebbero decine di pagine per discuterne. E spesso sono i libri che appaiono più semplici, più rapidi, immediati, esili, in qualche modo. E ci sono libri che è davvero un piacere scoprire di non avere mai letto, anche quando si sarebbe dovuto farlo per mestiere. E allora è una doppia meraviglia. Scoprirli dieci anni dopo, e meravigliarsi che non fosse mai capitato di leggerli prima. Penso a Nuovo romanzo di figure di Lalla Romano. […]

Dove l’immagine non spiega il testo, e viceversa, ma entrambi portano a un testo ulteriore: che non è più immagine, non è più parola, è qualcosa d’altro che non saprei spiegare. Se sfogliate questo libro, vedete che nelle pagine pari ci sono le foto, in quelle dispari le parole di commento della Romano. […]

Quelle immagini, ferme, antiche, in bianco e nero, diventano storia soltanto quando un testo scritto sessant’anni dopo strappa loro l’aura del documento. E fa di questo libro qualcosa di prezioso, un modo per capire cosa voglia dire veramente: «leggere le immagini». Forse è il caso di dire che Nuovo romanzo di figure è uno dei libri più belli usciti nel 1997.

Roberto Cotroneo
«L’Espresso», 29 dicembre 1997

 

Considerato dal punto di vista della scrittura, il romanzo che nelle due edizioni abbiamo davanti, appartiene, con pochi dubbi, al genere «romanzo di formazione», che a sua volta deriva, non dal semplice «romanzo autobiografico» – come la Romano tiene a farci capire – ma dal più vasto genere delle «memorie».

Mentre, se guardiamo dalla parte delle fotografie, il tipo di formazione che Lalla Romano ci porta a conoscere è quella che ha il suo centro nello stare nell’immagine, con l’immagine, per l’immagine: la percezione base della propria e dell’altrui; degli esseri, delle cose, del paese e del paesaggio.

Un problema non proprio semplice, che tuttavia col «semplice» vivere, anche se non volessimo, siamo obbligati ad affrontare ogni giorno, malgrado che su di esso si rifletta poco; come poco, del resto, siamo portati ad indugiare e interrogarci sul senso della fotografia.

Come che sia, per fare quello che ha fatto, Lalla Romano ha scelto un metodo netto, lineare: fare «scorrere» il suo dire in parallelo alle immagini, ben attenta a che la linea delle parole non «tagli la strada» alla linea di quello che in contemporanea si vede: un metodo tanto semplice quanto non facile, del quale del resto ha chiara coscienza, come si evince da questa sua dichiarazione: «Si suole dire che la mia scrittura è ridotta all’osso: la cosa sicura è che per me è più importante il taciuto del detto. Lascio molto spazio al silenzio».

E se è vero com’è vero che la fotografia è se stessa nel silenzio, con tutte le difficoltà e idiosincrasie che ne derivano, Lalla Romano scrittrice non poteva non incontrarla sul suo cammino; e non poteva che intendersi con lei come si è intesa.

Ancora su un punto ci preme da subito soffermarci: a p. 137 del Nuovo romanzo di figure e sull’immagine corrispondente incontriamo la «ruga del pensiero»: l’immagine è quella stessa della Romano bambina; e quella bambina, non possiamo non ammetterlo, è una bambina ancora infante (alla lettera: che non parla), ma è una bambina che pensa.

Pensa, ecco il punto, e pensa anche intensamente, in un silenzio che non è un vuoto (che sarebbe un non pensiero), ma un silenzio pieno di «qualcosa», che è rigorosamente prima della parola (quella parola con la quale noi pensiamo): un «qualcosa» nel quale, col quale, più o meno intensamente, dovremo ammettere, tutti gli infanti (sempre alla lettera, dunque per circa il primo anno di vita, o no?) pensano, conoscono; e non c’è niente in contrario al credere che quello che hanno conosciuto e pensato lo porteranno con sé, farà parte di loro, quando, dopo il primo anno di vita, «entreranno» nel linguaggio.

E questo ha a che fare col vedere e anche con la fotografia, come anche la Romano ci ha dato una cordiale spinta a guardare in faccia, ad affrontare.

 Fulvio Tempesti
«Archivio Fotografico Toscano», gennaio 1998

 

Nuovo romanzo di figure: si tratta di un discorso continuo che parte addirittura dalle sue prove di poetessa e di narratrice. A quello che è il lavoro proprio della scrittrice va aggiunto anche quello della pittrice: lavoro illustrato negli ultimi anni in diverse mostre che hanno avuto il giusto successo. Discorso unico e continuo che ci consente di entrare nel meccanismo della sua creazione e della sua lettura del mondo, potremmo dire una lettura corale non ristretta alle sue esperienze personali e private, ma anche all’intelligenza e ai sentimenti degli altri. Spesso Lalla Romano dà l’impressione di parlare per se stessa, in realtà il suo è sempre un discorso umano che arriva al cuore del lettore, tutto il contrario di quello che a prima vista potrebbe sembrare un diario. Di qui l’assenza di qualsiasi forma di compiacimento, di esaltazione più o meno bene controllata, ma un esempio di morale rigida e severa che la porta ad alzare il tono e , finalmente, a darci un testo di sapore classico. Si tratta di un discorso antico e moderno: antico perché parte dai primi anni della sua vita, dalla rievocazione dell’ambiente familiare, moderno perché elimina il giuoco delle suggestioni puramente sentimentali e legge quell’album di fotografie con la scienza e la forza che vengono dall’avere vissuto alla luce della coscienza e della verità poetica. […] Ecco dove sta la coralità e il coinvolgimento del lettore spettatore. Dico lettore-spettatore perché le immagini chiamano le parole e, a loro volta, le parole sobrie e contratte richiamano le immagini fotografiche, scatenando una lunga serie di interrogativi e invitando a fare delle aggiunte fin dove è possibile: insomma, a immaginare anche ciò che nelle immagini non c’è e respirare nella forza morale, poetica di Lalla Romano. In conclusione, la novità indiscutibile del suo nuovo libro consiste nell’avere rifatto alla luce del sole quello che all’inizio del secolo aveva fatto Marcel Proust nel chiuso della sua stanza. Proust dialogava con la sua memoria, meglio la verificava scrivendo, mentre Lalla Romano fa un cammino all’inverso: parte dalla sua esperienza, dal capitale costruito in tanti anni per ritrovarsi accanto al padre, agli amici del padre e alle sue montagne, al suo mondo. A suo modo un ritorno alle origini, una discesa alle madri, come dice Goethe, ferma, responsabile ed esemplare.

Carlo Bo
«Gente», 20 gennaio 1998

 

Il Nuovo romanzo di figure di Lalla Romano è un libro pieno di grazia che è nato da una vicenda lunghissima. Non è un libro di memorie, e non è un’autobiografia. È piuttosto un omaggio alla memoria che si ricorda di noi e ci regala una lettura del nostro passato sempre operante. Nascosto e operante sebbene stordito dal rumore del tempo. L’infanzia è la sola età che non svanisce mai e ci somiglia quanto più invecchiamo. Ma nel romanzo di figure non si tratta soltanto di questo recupero, non c’entra niente il luogo comune del vecchio che torna bambino. Qui assistiamo a un fenomeno molto più complesso e fortunoso: l’invenzione di una memoria. […]

Nella Penombra che abbiamo attraversato, stampato nel ’64, Lalla ritrova Demonte e quegli anni della prima infanzia, i riti fotografici del padre, gli aspetti «magici» dello sviluppo delle lastre alla luce «rossa» che la incantavano come operazioni misteriose alle quali aveva il permesso di assistere. Naturalmente, le fotografie non la interessavano. Le interessano ora, mentre scrive la Penombra, come un elemento tra i tanti significativi della sua vita di Demonte, ma non vi scopre niente di più. La memoria, per inventare, ha bisogna dei propri tempi lunghi.

Soltanto anni dopo, giunta Lalla in età avanzata, le fotografie si rivelarono un involontario romanzo di figure. Non più semplici testimonianze del passato, ma segni del destino che si veniva formando, epifanie scritte nelle immagini.

Un’affermazione di Lalla Romano dell’86 spiega l’emozione della scoperta: «Nel senso che intendo io, la lettura di un’immagine fotografica è un avvenimento abbastanza raro, imprevedibile. Non tutte le fotografie si prestano, cioè dicono, cioè sono scrittura».

Le parole chiave sembrano avvenimento imprevedibile. C’è da pensare che il riconoscimento romanzesco delle fotografie sia stato tutt’uno con l’idea di costruirne un libro, sceglierle e ordinarle in capitoli. Se il romanzo familiare è scritto nelle lastre fotografiche di Roberto Romano, allora i commenti che le fronteggeranno pagina per pagina, in forma di lievi e rapidi appunti, saranno le illustrazioni. Questo accattivante rovesciamento del canone è decisivo, produce lo stile del libro: arioso, intenso e segreto. […]

Di una cosa siamo certi: per goderci questo delizioso libro bisogna percepire il tono poetico della sua prosa (i lampi di chiaroveggenza, la vibrante sobrietà, la tensione verso la verità) ed essere insieme ben disposti alla tenerezza e all’ironia. Sospesi alla retrospettiva del tempo che resta indefinitamente aperto.

 Alfredo Giuliani
«La Repubblica», 1° febbraio 1998