Una giovinezza inventata
Edizioni
Prima edizione: Einaudi («Supercoralli»), Torino 1979.
Successive edizioni Einaudi: «Einaudi Tascabili», Introduzione dell’autrice, Postfazione di Giovanni Raboni, Torino 1995.
Altre edizioni: Club degli Editori, Brescia 1980; in Opere, a cura di Cesare Segre, Mondadori («I Meridiani»), Milano 1992, vol. II, pp. 623-858; Einaudi Scuola, a cura di Giovanni Tesio, Milano 1994.
Traduzione: Une jeunesse inventée (Philippe Giraudon), Éditions de la Différence, Parigi 1992.
Titolo
«Una giovinezza inventata, che diventa verità nella vecchiaia» è l’esergo di Elias Canetti, illuminante sul senso del libro. La vecchiaia o, per meglio dire, la scrittura nel caso dell’autrice, dà un senso di autentificazione a personaggi, storie, situazioni che nel fluire della vita sono fraintesi, mitizzati, “inventati” appunto.
La verità è che io sono ancora quella del romanzo, come sono quella che l’ha scritto. La giovinezza (la ragazza) era diventata vera nella scrittura. Forse perché l’autrice potesse scriverne nella vecchiaia?
Adesso io sono molto vecchia – fatto assolutamente irrilevante – ma sono anche quella ragazza. Dove? Nel libro. Lì la ragazza è viva.
L. Romano, Introduzione a Una giovinezza inventata, 1995
Argomento
È il romanzo di formazione di una ragazza borghese, l’autrice, guidata dalla passione divorante per la bellezza e la verità, intese come un tutt’uno. Sono gli anni Venti e la giovane Lalla si reca a studiare a Torino, una città malinconicamente struggente nel suo decoro un po’ antiquato. Accanto al percorso universitario, Lalla approfondisce il proprio talento per la pittura, frequentando dapprima lo studio di Giovanni Guarlotti, maestro naturalista di tradizione ottocentesca, e passando poi alla scuola di Felice Casorati. In questo romanzo, attraversato da interrogativi e turbamenti, e talvolta venato di malinconia, Lalla Romano narra la scoperta del suo modo di essere, la sua educazione sentimentale e la sua passione per l’arte.
Incipit
Suppongo che a quel tempo le valige fossero tutte a soffietto; comunque la nostra io la portavo con disinvoltura. Era di pelle – come faceva notare mamma – e non pareva che in fatto di valige si potesse andare più in là. Doveva risalire al viaggio di nozze e certo era servita nei viaggi di prima della guerra, quando, secondo una mia impressione, eravamo stati ricchi. Non credo che la valigia fosse molto pesante, quel giorno; del resto la portava papà.
Quel giorno papà aveva un’aria speciale. Avevo sempre osservato che in viaggio appariva più signore. Aveva la sua aria distratta e insieme concentrata, ma, a differenza del solito, un po’ triste, quasi di cortese rassegnazione; eppure mostrava anche un vago orgoglio come se partecipasse a una solennità. Infatti portava – come al concerto – gli occhiali: d’oro, a pince-nez. Papà era miope ma portava gli occhiali solo a teatro e per guardare i quadri.
Antologia della critica
Il tema vero non è l’autoritratto, né il ritratto d’ambiente; ma una sorta di misurazione autobiografica, condotta appunto con severità, della distanza o della prossimità alla propria rigorosa fedeltà morale, negli anni giovanili della formazione.
[...] Una giovinezza inventata ci dà il quadro di una infelicità, sottile ma irrimediabile, che la giovinezza consegna alla vita.
Geno Pampaloni
«Il Giornale Nuovo», 11 novembre 1979; poi in A. Ria (a cura di), Intorno a Lalla Romano.
Saggi critici e testimonianze, Mondadori, Milano 1996, p. 65
Nell’intreccio dei piani che compongono il «romanzo», c’è una storia di formazione e un’analisi ambientale, quest’ultima portata fino a struggenti rappresentazioni oggettuali, colori, bagliori, interni di case, atmosfere e luoghi. Ma tutto è subordinato, fa da supporto alla ricerca dell’io. C’è, rispetto ai libri precedenti della Romano, un’accentuazione di egotismo. Non è godimento soddisfatto di sé. È un egotismo infelice, nel quale la personalità, prigioniera di quelle condizioni di apparente libertà, diventa incapace di confronti e di scelte.
Michele Rago
«Paese Sera», 20 novembre 1979
Nella storia di quest’educazione al giusto sentire e al giusto dire, anche i frammenti della voce giovanile, che da soli suonerebbero inautentici, si trasformano in verità, inquadrati come sono nello stile maturo. Groviglio di pensieri oscuri, d’amore confuso e di disperazione, diventano il più drammatico e poetico ritratto che la Romano abbia dato non solo di sé, ma della giovinezza e della condizione delle donne.
Vittorio Saltini
«L’Espresso», 25 novembre 1979
È incredibile la bravura con cui la Romano sa mantenere il tempo della sua narrazione, legato a una specie di assorto vincolo interno che fa parte di lei e della sua femminilità, costantemente presente e pur così difficile a concedersi malgrado l’avvertibile coscienza di quanto di torbido esiste o può esistere o è sottinteso nei rapporti umani.
Guido Bezzola
«Il Giorno», 27 novembre 1979
Tutto questo ce lo racconta con un linguaggio preciso, secco, funzionale, e nello stesso tempo quasi scritto sull’acqua: con l’eleganza un po’ stremata, che amiamo imprestare all’immagine turbata e trasparente di Narciso.
Lorenzo Mondo
«La Stampa», 7 dicembre 1979
Mettendo ordine nei ricordi, utilizzando gelosi documenti – lettere, frammenti, diari – che potrebbero essere, e forse sono, frutto della fantasia della memoria, la scrittrice crea il romanzo di una giovane donna e un documento storico di una città, in un connubio che, per l’intimità della compenetrazione, ci sembra non abbia precedenti. […]
Quello che più conta è il senso di questa arte, quel suo continuo andare avanti: un procedere uniforme che, nella distanza quasi illimitata, raggiunge l’effetto opposto a quello fisico: di livellare, attenuare, quasi cancellare i contrasti. […]
Nessuno scrittore possiede in questa misura oggi la pazienza di una simile ricerca nel mistero della propria esistenza, la caparbia fiducia, la dolce e crudele pietà della memoria necessaria ad accompagnarla; e l’umiltà, l’orgoglio, la presunzione illimitata di contemplarsi al centro del mondo per l’eternità del tempo, quel tempo che esalta ed umilia, alza alle stelle e cancella. Il risultato è unico, limpido e saldo com’è dei classici. La lunga cura, la stagionatura della pagina fanno parte del modo d’essere di questa narrativa. La scrupolosa nettezza della forma è strumento insostituibile a catturare ciò che è perennemente in fuga: a esprimere, come si usava dire, l’ineffabile.
Claudio Marabini
«Il Resto del Carlino», 15 dicembre 1979
In Una giovinezza inventata vengono ricomposte le paure, le dolcezze, i primi palpiti d’un cuore diviso fra Milano e Torino. Giovinezza ed insieme vita, ma più che altro si tratta di uno scavo al fondo della verità che dovrà guidare quest’esistenza futura. […] La Romano scrive in modo da sembrar severa e dolcissima e le sue pagine sono lì quasi a consacrare il religioso di ogni parola.
Fulvio Panzeri
«Il Sabato», 15 dicembre 1979
Lalla Romano riprende ancora una volta un tema che è soltanto suo, quello della memoria controllata. Non semplici rievocazioni, non abbandoni romantici ma una sorta di meditazione fra la malinconia e l’intelligenza. Si prenda come indice capitale l’uso del giudizio tra parentesi, quell’«antipatico» che suona come un indomabile bisogno di interrompere il flusso della memoria per riprendere l’altro filo del discorso che è poi quello eterno dell’intelligenza forte e libera. [...]
Altrove la Romano aveva già dato prove della sua sapienza, qui direi che c’è qualcosa in più: una consapevolezza che colpisce per la forza, anzi per la durezza della rappresentazione.
Carlo Bo
«L’Europeo», 20 dicembre 1979
Come sempre bisogna fare attenzione al titolo [...]. Dove inventata allude in parte all’involontaria rielaborazione e ricostruzione della memoria, ma anche, latinamente, allo sforzo di «ritrovare, rintracciare» il passato.
Una giovinezza inventata è l’unico romanzo veramente autobiografico di una scrittrice che ha quasi sempre utilizzato materiali autobiografici per creare libri non autobiografici. [...]
Un altro titolo possibile del libro, a quanto pare non previsto, sarebbe: I turbamenti della giovane Lalla. Gli anni universitari si rivelano infatti, alla lettura attenta di un romanzo in cui di sesso si parla esplicitamente poco, e comunque con molta reticenza, anni d’iniziazione non solo al sesso, comunque evidentemente atteso, ma alla sensibilità, alle vibrazioni, ai soprassalti, ai moti istintivi che contornano la sessualità anche a prescindere dalle sue manifestazioni più codificate. Bastino, a questo proposito, certe sottili notazioni sulle amicizie femminili.
Cesare Segre
Introduzione a L. Romano, Opere, Mondadori, «I Meridiani», Milano 1991, vol. I, pp. xlvi-il
Il capolavoro di Lalla Romano Una giovinezza inventata, singolare autobiografia sulla propria giovinezza vissuta negli anni Venti, è la ricostruzione di un’educazione culturale e “sentimentale”: come in parte suggerisce il titolo, nel raccontare la propria giovinezza l’autrice non mira a ritrovare il profumo autentico e originario del tempo giovanile perduto, ma a fissarne la sola immagine veramente possibile, quella che la sua mente può costruire nel presente, dal punto di vista della vecchiaia. La vita della giovane borghese, tra gli studi, la malinconia, l’amore, i disagi e le difficoltà legate alla condizione femminile, si definisce qui come il risultato di un’elaborazione mentale, in una rigorosa essenzialità stilistica: senza nessun compiacimento sentimentale, l’esperienza dell’autrice si pone come un emblema della giovinezza femminile, rivelatasi come «costruzione tragica, come difficile lotta per muoversi nel mondo, per trovare spazio in mezzo a figure, apparenze, realtà estranee che vengono incontro alla donna e a cui essa guarda con attenzione e con ritrosia, con una fedeltà a se stessa che comporta conquiste e rinunce.
Giulio Ferroni
Storia della letteratura italiana, Einaudi, Torino 1991, vol. IV, pp. 562-63
Ne [La giovinezza inventata] emerge un personaggio che si nutre in un certo senso di ogni altro personaggio e che vive all’insegna di spinte psicologiche contraddittorie e a loro volta frammentarie ma imperative. Alla paura, all’angoscia, agli imbarazzi, alle timidezze e alle vergogne, alla tristezza e alla perplessità, all’inquietudine e alla malinconia,alla diffidenza e all’isolamento, all’orrore per ogni forma di sentimentalismo, fanno riscontro l’intellettualismo, il gusto per la sfida, l’audacia e l’orgoglio della diversità, il disprezzo per il meramente utile, la tensione (ascetica) per il definitivo e l’assoluto, il bisogno d’ordine e di chiarezza, la propensione al contemplativo, la passione per la bellezza non convenzionale.
L’intensa dialettica che intercorre tra l’io (attuale e remoto) e i suoi personaggi, avviene – ciò che conta – all’interno di una prospettiva fortemente esistenziale: anche quando si tratta – come accade qui molto spesso – di lettere missive e responsive, di chiose critiche, di appunti diaristici, di sogni trascritti e persino di uno studio di romanzo giovanile, Il Manichino Amoroso. Tutti documenti dotati di una loro quota di obiettività e utili a ricostruire il clima e la sensibilità di un’epoca e di un ambiente, ma sempre entro l’orbita di chi contempla il proprio vissuto con disposizione soprattutto interiore. […]
Lo stile tende a dilatare musicalmente il segreto, a scandire in geometrie essenziali lo spazio di una verità esistenziale sempre magica e mai definitiva, che tuttavia va còlta con fermezza – e come in sogno – oltre le labili tracce del vivere e dell’apparire. Si potrebbe così dire per la Romano di questo romanzo ciò che Ungaretti ha detto una volta per sé: «Io credo che nella poesia della vecchiaia ci sia una tale esperienza che, se s’arriva a trovare la parola giusta per esprimerla, s’arriva a fare la poesia più alta».
Giovanni Tesio
Introduzione a L. Romano, Una giovinezza inventata, Einaudi Scuola, Milano 1994, pp. xxvi-xxix
Se è vero che l’oggettività «flaubertiana» dei primi libri della Romano è una sorta di rimozione-travestimento del suo autobiografismo lirico, è almeno altrettanto vero, secondo me, che la soggettività «proustiana» dei suoi libri successivi avvolge e protegge il nocciolo di una descrizione non meno oggettiva e anzi (proprio perché esercitata, se così si può dire, a carico dell’io narrante) ancor più distaccata e disincantata, fino all’evidenza di una pungente e non certo schermata ironia.
E assolutamente indicativa in questo senso è proprio, a mio avviso, Una giovinezza inventata, che oltre ad essere, senza il minimo dubbio, una «storia di Lalla» è, altrettanto indubbiamente, una storia «esemplare»: la storia di una ragazza borghese, una jeune fille rangée che vive con rabbia e al tempo stesso con astrazione […] la propria ignoranza (socialmente funzionale e intrinsecamente simbolica) della vita.
Romanzo d’educazione e apprendistato ma anche documento d’insofferenza, di estraneità, testimonianza o parabola di una rivolta profondamente «inattuale» e forse impossibile, Una giovinezza inventata è tutta al di qua – volutamente al di qua – della comprensione e della conoscenza di sé; e le notizie che ci fornisce sul modo di vivere e di pensare della borghesia intellettuale, aristocraticamente e inoffensivamente antifascista, incappata nella realtà (tanto più soffocante quanto meno visibile) dei primi anni del fascismo, sono, nella loro apparente frammentarietà e svagatezza, precisissime proprio perché filtrate con sapiente finezza attraverso l’«ingenuità» – certamente autentica, ma sottilmente e suggestivamente accentuata – dell’io narrante.
Giovanni Raboni
Postfazione a Una giovinezza inventata, Einaudi Tascabili, Torino 1995, pp. 244-45
La ricerca muove lungo due poli geografico-spaziali, che sono insieme anagrafici e affettivi: da un lato Torino, città degli studi e della modernità [...]; e dall’altro lato Cuneo, città «d’antan», il luogo dell’adolescenza [...], avvolto nel suo clima provinciale, domestico e rassicurante. Anche se il polo più esplicito resta naturalmente quello torinese.
L’io protagonista vi inscena un drammatico e doloroso processo di formazione culturale e sentimentale: come a dire, l’Università, le biblioteche, la Società di cultura, i teatri, gli ateliers dei due maestri-pittori, le mostre, il viaggio a Parigi, il pensionato, le amicizie maschili e femminili giocate con diversa temperatura emotiva e gradazione di affinità.
Giovanni Tesio
Lalla Romano e l’invenzione di «Una giovinezza»,
in A. Ria (a cura di), Intorno a Lalla Romano. Saggi critici e testimonianze, cit., pp. 82-83
Una giovinezza inventata, proprio nel senso di ricreata fantasticamente, al massimo grado di creatività, quello che è proprio della poesia. Ma anche ritrovata, quella giovinezza, nella memoria, in un senso che ha a che fare con un verbo come il latino invenire. La fantasia – in questo libro in modo davvero paradigmatico – secondo un movimento profondo di restituzione, non è puro arbitrio, capriccio irresponsabile, ma invenzione della verità, di ciò che veramente fu: insomma la riconquista, per libero scatto della fantasia, dentro ciò che è esistito, dell’autenticità dell’essere. […]
La giovinezza inventata della Romano – certo – diventa verità nella vecchiaia: ma non è quella giovinezza, nel tempo della vecchiaia, sub iudicio, giudicata alla luce di quanto è avvenuto «dopo». Si tratta d’una giovinezza che diventa verità proprio perché ritrovata, con tutte le sue ombre, nel suo «imprevedibile accadere»: gli altri, tutti gli altri – da Peano e Pastore a Venturi e Casorati, da Antonicelli al cugino Nino, da Giangi Ambrogini a Soldati e Levi, alla vasta folla di personaggi che gremisce il romanzo –, rivisitati in quegli anni lontani, riemergono dentro di noi, come fossero, però, ancora fuori di noi, in tutto il loro mistero.
Massimo Onofri
Inventare la giovinezza e la verità: considerazioni su Lalla Romano, in «Nuovi Argomenti»,
V serie (2008), n. 41, pp. 325-27; poi, col titolo Lalla Romano e l’invenzione della verità,
in Id., Altri italiani. Saggi sul Novecento, Gaffi, Roma 2012, pp. 129-42.