Tetto Murato

Copertina Tetto MuratoEdizioni

Prima edizione: Einaudi («I coralli»), Torino 1957.

Successive edizioni Einaudi: «Supercoralli», Torino 1971; «Nuovi Coralli», Nota dell’autrice, Torino 1985; «Einaudi Tascabili», Presentazione di Eugenio Montale, Postfazione di Giulio Ferroni, Torino 1998.

Altre edizioni: in Opere, a cura di Cesare Segre, Mondadori («I Meridiani»), Milano 1991, vol. I, pp. 523-663; Editrice La Stampa («Collezione d’autore»), Torino 2005.

Traduzioni: Schattenfugen (Maria Fehringer e Herman Seide), Commedia & Arte, Stoccarda 1998; Le silence partagé (Jean e Marie-Noëlle Pastureau), Gallimard / L’Arpenteur, Parigi 1995.

Premi

Primo Premio Pavese per un inedito, Alba 1957.

Titolo

«Tetto» è il nome che nel Cuneese viene dato a un piccolo agglomerato rurale. Tetto Murato, in particolare, è il toponimo di un gruppo di case coloniche, che forma un unico blocco abitativo per più famiglie. Cesare Pavese, sentendo questo nome a Torino in casa di amici, presente l’autrice, aveva detto che sarebbe stato un bel titolo per un romanzo.

Argomento

La guerra e l’inverno isolano in uno sperduto gruppo di case due coppie di amici. Ada, giovane insegnante, natura istintiva e luminosa, e Paolo, intellettuale malato, da una parte; dall’altra, Giulia, maternamente attratta dalla debolezza di Paolo, e suo marito Stefano, uomo forte e risoluto, a sua volta colpito dalla vitalità di Ada. L’attrazione reciproca si limita al piano delle affinità elettive, al non detto, alle complicità sottintese.

Incipit

Avevo sentito parlare di loro, come si parla in provincia dei forestieri: con sospetto, se non proprio con scandalo.

   Lui, professore, mandato nella piccola città di frontiera come in una specie di confino; lei superba, aristocratica. Non si sapeva come vivessero: non davano lezioni, eppure nessuno poteva dire che avessero debiti. Il peggio di tutto era che «non andavano in chiesa».

   Avevo compatito i forestieri. La vita nella città non doveva essere facile, per loro.

 

Antologia della critica

È stato Goethe, si sa, a trasportare dal campo fisico a quello psicologico la legge delle affinità elettive, delle attrazioni naturali fra gli esseri, di là dai legami convenzionali e legittimi: così fra Giulia e Paolo, come fra Ada e Stefano si crea un rapporto mai confessato ma operante, una fusione ideale, che non turba tuttavia la felicità e l’unità coniugale, e a cui si intreccia poi la singolare relazione d’amicizia fra Giulia e Ada. […] Nulla di concreto accade tra i quattro, nessuna parola decisiva viene pronunciata: e alla fine l’incanto di Tetto Murato si scioglie: ma proprio in questa verità, in questa realtà più vera dei sentimenti nascosti, continuamente sfiorata e mai dichiarata, ma che dà l’inclinazione a tutti i fatti, in questa «tematica del silenzio» diremmo, la Romano mostra una discrezione e insieme una fermezza esemplari.

 

Giuliano Gramigna

«Corriere d’Informazione», 8 febbraio 1958

 

 

Certi libri non si possono leggere tutti d’un fiato. Nessun libro, veramente, deve leggersi tutto d’un fiato. Quelli poi come questo, lavorati a segmenti (vivi, però), che infine poi fanno tutt’una cosa. Son essi che crescono a poco a poco sopra se stessi, per accumulazione, ma dall’interno. A poco per volta, attratti e un po’ confusi da quei tali segmenti, in fine poi ci mostrano tutto il percorso; un brulichio incessante che s’organizza, e si fa persona: come fosse proprio una creatura.

 

Giuseppe de Robertis

«Tempo», 27 febbraio 1958

 

 

Non è una cronaca di guerra, questa; né può dirsi che la Romano indulga a un’accademia resistenziale. Tutti coloro che hanno conosciuto l’agonia di certe ore e stagioni che parevano rovesciare o sospendere ogni norma della nostra vita consueta sanno che da simili esperienze si esce (quando si possa uscirne) consapevoli di qualche verità fino a quel tempo insospettata. Nel caso di Tetto Murato questa verità è, se si vuole, l’amore; non però l’amore terreno, di esseri in carne ed ossa, bensì l’amore intellettuale della vita, delle sue contraddizioni e ambiguità, e della sua inesplicabile dignità. Un quasi sacrale amor vitae è il dono di Ada: il dono che i quattro personaggi del libro porteranno con sé quando il pericolo sarà scomparso e le due coppie si divideranno per sempre.

 

Eugenio Montale

«Corriere della Sera», 6 maggio 1958

 

 

Non si tratta solo di fiori della memoria, di una lunga esercitazione sul passato, ma di una vera e propria valutazione della nostra vita: per me se il libro della Romano ha un valore assoluto, è proprio quello di averci fatto capire come la realtà non dipenda da noi e come il nostro mondo sia continuamente soggetto alle offese del caso, come gli stessi nostri sentimenti siano il più delle volte soltanto degli accorgimenti, degli stratagemmi, mentre la verità resta segreta, difesa contro la nostra curiosità.

 

Carlo Bo

«La Nuova Stampa», 23 maggio 1958

 

 

Forse non ci fu chiaro che quello che avevamo chiamato altra volta, a proposito di Tetto Murato, il decadentismo psicologico e crepuscolare della Romano, stava diventando, proprio allora, un’originale maniera di aggiungere al proprio dono lirico la percezione di un mal di vivere che aveva anche le sue profonde radici nella società.

 

Luigi Baldacci

«Epoca», 24 luglio 1964

 

 

Lalla Romano ha certamente una devozione indiscussa per Flaubert […]: e questa ascendenza le ha consentito di trasfondere nel romanzo un’idea del tempo per cui il succedersi degli eventi ha tono e colore di musica sospesa, è un tragico accadere dove tutto sembra risucchiato dall’orrore. È un’idea del tempo che pare ridursi a un puro vuoto, ma in quel vuoto, e proprio per quel vuoto, il confronto fra i quattro personaggi s’arricchisce d’echi, tutto riempie.

 

Enzo Siciliano

«Corriere della Sera», 21 maggio 1985

 

 

Qui la voce narrante non si concede abbandoni, godimenti; solo testimonia le giornate e gli eventi, il poco che accade e che pure significa il destino dei due uomini e delle due donne.

Pure, dietro il tono pacato, ironico, vibra la passione di chi caparbiamente aspira a una diversa libertà, a un’esistenza più colma e intensa. Ed è la stessa passione che muove la scrittura della Romano nei suoi libri precedenti e successivi a questo: dove il molto e il complesso sono decifrati nella minuzia dell’allusione, del cenno.

 

Elio Pecora

«Reporter», 26 giugno 1985

 

 

Lalla Romano raggiunge una sintesi perfetta tra argomento, ambientazione, stile. I capitoli, brevi ed equilibrati, sono la naturale struttura di una prosa essenziale ma non per questo scarna, dove l’intensità si è sostituita all’estensione, la profondità alla lunghezza.

 

Bruna Dell’Agnese

«Il manifesto», 17 settembre 1985

 

 

Ormai Lalla Romano è padrona di uno stile estremamente affinato, che fa di un gesto un’apparizione (o un’epifania). Basta vedere già nella prima pagina come appare, sul suo balcone, Ada: «La figura aveva una grazia antica […]».

Il libro è pieno di visioni come questa (e paesaggi, e interni, dove ogni gioco di luce e d’ombra ha qualcosa di un’apparizione soprannaturale). Ma il massimo dell’intensità sta nel non detto, nei discorsi che, anche semplici, hanno risonanze oracolari, nelle azioni che racchiudono sempre rivelazioni. Lalla Romano ha perfezionato il suo modo di osservare senza sollecitare («non facevo per mia natura domande»); le conversazioni, non costrette a semplificazioni responsive, sono cariche di verità inespresse, balenanti nel buio.

Cesare Segre

Introduzione a L. Romano, Opere, Mondadori, «I Meridiani» Milano 1991, vol. I, pp. XXV-XXVI

 

 

Tetto Murato, romanzo del segreto, dell’insondabilità dei rapporti, della necessità di interpretare ciò che resiste all’interpretazione. […] L’epigrafe tratta dai Dialoghi con Leucò di Pavese immerge preliminarmente il romanzo in un’aura di silenzio, sembra proiettarne tutta la vicenda nell’ambito di una reticenza «condivisa», verso una serie di rapporti e di possibilità sospese e non dette. Se la reticenza è un dato essenziale in tutta l’opera della Romano, modo autentico di «salvare» i sentimenti e i rapporti, di sottrarli alla consunzione dell’ovvio, alla violazione che su di esse opera la loro inevitabile quotidianità e normalità, qui essa acquista un assoluto rilievo per il fatto stesso che i sentimenti e rapporti si svolgono sullo sfondo della Resistenza, accanto alla scena di una storia tremenda e distruttiva, ai margini di una «realtà» bruciante tanto frequentata dalla letteratura dell’immediato dopoguerra. […]

Le situazioni e le presenze di Tetto Murato assumono un rilievo che, a seconda dei punti di vista, può essere definito allegorico e simbolico. […]

La situazione e i rapporti dei personaggi, i loro movimenti, l’ambiente e il tempo duri e difficili che li accolgono, sembrano segnati da una sorta di ineluttabile persistenza, su cui grava al contempo la minaccia e l’attesa del cambiamento: e anche se è naturale che tutti sperino nella fine della guerra, che tutti si proiettino verso la vita «dopo», verso il ritorno alla normalità e verso le nuove situazioni e possibilità che saranno date dalla liberazione, il malato Paolo appare senza futuro, e tutti, ma in primo luogo la narratrice Giulia, sono dominati da uno sgomento di fronte al mutare, di fronte a una possibile chiarezza, di fronte ad ogni uscita dal legame sotterraneo e segreto che proprio quella situazione eccezionale e il soggiorno di Tetto Murato hanno creato. […]

Il paesaggio invernale sotto la neve, attraversato più volte da Giulia nei suoi viaggi verso Tetto Murato, costituisce lo sfondo avvolgente ed assoluto di questa vicenda tutta simbolica e interiore: con variazioni sottili, la persistenza della neve si impone con una sua inquietante ripetitività, fascia il mondo e le esistenze in un silenzio e in un’alterità inesorabili, suggerisce segreti impossibili e inafferrabili, crea un impalpabile ritmo lirico, che raccorda i brevi capitoli, che dà un ritmo singolare (quasi fosse una «rima» sottaciuta) al loro intenso ed accelerato susseguirsi. […]

In questo rifiuto o impossibilità di sapere, nella lacerazione che esso crea, con intensa concentrazione, fuori da ogni sentimentalismo e da ogni maniera, Lalla dà voce a quel riscatto dell’essenzialità della vita, a cui ha sempre mirato la sua scrittura, e che qui si proietta sullo sfondo di un mondo gelato e difficile, segnato dalla presenza distante e insieme minacciosa della guerra. Un romanzo da scoprire e riscoprire, in cui mi pare si possano trovare alcune delle pagine più intense della letteratura degli anni ’50.

 

Giulio Ferroni

Postfazione a Tetto Murato, Einaudi Tascabili, Torino 1998, pp. 169-75